domenica 2 ottobre 2011

La guerra dei cento anni

Con l’espressione ‘guerra dei cento anni’ si indica l’insieme dei conflitti tra Francia e Inghilterra combattuti tra il 1337 e il 1453: furono coinvolte anche le Fiandre e la Castiglia.
Cause del conflitto: 1) nel 1066 Guglielmo il Conquistatore, duca di Normandia, divenne re d’Inghilterra creando così un rapporto ambiguo fra i due paesi separati dalla Manica; 2) il territorio dell’Aquitania (o Guienna), cioè la zona di Bordeaux, fu contesa fra Luigi VI di Francia e Enrico II d’Inghilterra; 3) le Fiandre erano legate politicamente alla Francia ma economicamente all’Inghilterra, e ciò era motivo di contrasto; 4) la Francia aveva legami con il regno di Scozia.
Nella guerra dei cento anni si possono distinguere due fasi: 1) fase feudale dinastica (1337-1420); 2) fase nazionale (1420-1453).

Fase feudale dinastica
Quando nel 1328 Carlo IV di Francia morì senza eredi, la corona sarebbe dovuta passare a Edoardo III d’Inghilterra (il parente più prossimo), ma i feudatari francesi gli preferirono Filippo di Valois, perché nato in Francia, che salì al trono nello stesso 1328 con il nome di Filippo VI. Edoardo III accettò il fatto compiuto, ma quando Filippo VI appoggiò le rivolte scozzesi e ostacolò il commercio inglese nelle Fiandre decise di cambiare atteggiamento e rivendicò la corona francese. Le Fiandre si ribellarono al giogo francese, dandosi un’organizzazione autonoma sotto la protezione inglese. L’esercito inglese era ben armato e faceva uso delle bombarde e dell’arco lungo, dotato di una notevole forza di penetrazione. Gli inglesi sul mare sconfissero la flotta francese all’Ecluse (1340), ma si impantanarono nell’inutile assedio di Tournai.
Con la mediazione del papa Benedetto XII, che voleva riunire francesi e inglesi in una nuova crociata, parve che si potesse giungere ad una pace. Ma la morte senza eredi di Giovanni III, duca di Bretagna, fu motivo di una nuova contesa dinastica tra Francia e Inghilterra. Sbarcato in bassa Normandia, Edoardo III ottenne una grande vittoria sui francesi a Crécy (1346) ed espugnò Calais (4-8-1347) dopo un anno di assedio. Ma il propagarsi della peste nera portò a un periodo di sospensione delle ostilità fino al 1355.
Il figlio del re inglese, Edoardo di Galles detto il Principe nero, ottenne alla ripresa delle ostilità una nuova vittoria a Poitiers (1356), catturando addirittura il nuovo re di Francia Giovanni II. La Francia attraversò un periodo di grave crisi. Il principe reggente Carlo incontrò a Parigi l’ostilità dei borghesi e, politicamente, quella di Carlo il malvagio, re di Navarra. La rivolta antinobiliare dei contadini (detta “jacquerie”) fu rapidamente soffocata. La posizione di Carlo si rafforzò, mentre una nuova campagna militare di Edoardo III (1359-60) si concluse nella Beauce (a sud di Parigi) in modo fallimentare. Ne seguì l pace di Brétigny-Calais (1360) che riconosceva Calais e la Guienna agli inglesi.
Il principe Carlo era ormai divenuto re di Francia con il nome di Carlo V e riorganizzò la struttura amministrativa e militare del regno: egli sconfisse Carlo il malvagio a Cocherel (1364) e intervenne nella lotta per la successione al trono di Castiglia fra Enrico di Trastamara (che, appoggiato dai francesi, avrà la meglio) e Pietro il crudele (aiutato dagli inglesi). Il conflitto tra Francia e Inghilterra continuava, ma le sorti francesi si risollevarono grazie all’appoggio della Castiglia e della Scozia, sicché verso il 1380 all’Inghilterra restavano solo Bordeaux e Calais. Dopo la morte di Carlo V di Francia il conflitto ebbe un periodo i stallo, a causa dei gravi problemi interni che affliggevano sia Inghilterra che Francia. Riccardo III (1377-99) in Inghilterra dovette fronteggiare i moti dei contadini e fu infine spodestato dai Lancaster (Enrico IV nel 1399, a cui succedette Enrico V nel 1413). Carlo VI (1388-1422) in Francia, per via della minore età, era limitato nell’esercizio delle sue funzioni da parenti e consiglieri. In seguito Carlo VI, a partire dal 1392, fu colpito da ripetute crisi di follia: si scatenò così una lotta per il potere che portò all’assassinio (1407) di Luigi d’Orléans, fratello del re, e alla formazione di due fazioni (armagnacchi e borgognoni).
Capo dei borgognoni era il duca di Borgogna, Giovanni senza paura, che si alleò con le Fiandre e con l’Inghilterra di Enrico V, sconfiggendo i francesi ad Azincourt (1415): una battaglia che vide un’ottima prova dell’esercito inglese. Il re di Francia fu così indotto a firmare il trattato di Troyes, con cui dichiarava Enrico V suo erede, concedendogli in moglie la figlia Caterina. In questo modo la Francia fu spaccata in due, perché la parte nordorientale era in mano degli anglo-borgognoni, quella meridionale degli armagnacchi.
Morti Carlo VI ed Enrico V, a Parigi fu proclamato r di Francia e d’Inghilterra Enrico VI (figlio di Enrico V), mentre a Bourges fu proclamato re Carlo VII.

La fase nazionale
La debolezza di Carlo VII condusse alla ripresa delle ostilità e all’assedio di Orléans. Giovnna d’Arco, guidata da arcane voci, si presentò a Carlo VII, rianimò i francesi e, liberata Orléans (8-5-1429) fece consacrare a Reims Carlo VII come re di Francia (8-7-1429). Catturata a Compiègne dai borgognoni nel 1430, Giovanna d’Arco fu processata e condannata al rogo come eretica (1431).
Ma intanto la guerra era diventata “nazionale” e Carlo VII si accordò con il duca di Borgogna Filippo il Buono (succeduto al padre Giovanni senza paura) ottenendo Parigi con il trattato di Arras (1435), e in seguito stipulò con gli inglesi la tragua di Tours (1444). Gli inglesi cominciavano a cedere e i francesi ripresero la Normandia con il successo di Formigny e la Guienna con la vittoriosa battaglia di Castillon (1453).
La guerra si esauriva di fatto, senza alcun accordo formale, con gli inglesi che avevano di nuovo ceduto tutte le loro conquiste sul suolo francese (tranne Calais). Solo nel 1475, con il trattato di Picquigny, la guerra fu conclusa anche formalmente. Le principali conseguenze della guerra dei Cento anni furono la separazione chiara tra Francia e Inghilterra e la nascita dell’idea moderna di nazione.

© Giovanni Scattone 2011

sabato 21 maggio 2011

Hegel: la Fenomenologia

La filosofia hegeliana si sviluppa nel periodo storico che va dalla Rivoluzione francese alla Restaurazione; il giovane Hegel prende inizialmente le parti dei rivoluzionari e si atteggia criticamente nei confronti del conservatorismo politico e della religione positiva. Egli cerca una religione che non si incentri sul colloquio personale del singolo con Dio, ma che esprima immediatamente lo spirito del popolo nella sua unità, come avveniva nella religione della pòlis greca. Al tema illuministico della religione naturale, opposta a quelle positive effettivamente praticate, si lega così quello del ritorno a una grecità idealizzata. Nella Vita di Gesù la predicazione di Cristo è interpretata in termini kantiani come una religione del dovere: la purezza di questa dottrina si è tuttavia persa, dando origine al cristianesimo che conosciamo. Nell’opera Sullo spirito e il destino del cristianesimo, quest’ultimo è visto come un notevole passo avanti nei confronti dell’ebraismo: mentre il popolo ebraico ha proiettato nella religione la sua tendenza a separarsi dagli altri popoli, l’amore cristiano tende all’unione e riesce a conciliare l’opposizione fra il particolare (l’uomo) e l’universale (Dio).
Già in questi scritti teologici giovanili Hegel coglie negli avvenimenti storici significati speculativi e finalità che vanno oltre le intenzioni dei protagonisti: ma è nella Fenomenologia dello spirito che si esprime appieno la nozione hegeliana di verità quale totalità compiuta, che integra e ricomprende in sé come momenti le visioni parziali colte dall’intelletto. Al predominio kantiano dell’intelletto, Hegel sostituisce quello della ragione, che raggiunge l’assoluto: “L’universalità del sapere […] non è la solita indeterminatezza e meschinità del senso comune, ma conoscenza coltivata e compiuta”.
La forza di coesione fra le parti non è più vista da Hegel nell’amore: essa consiste piuttosto nella ragione, e nel movimento dialettico dello spirito. Ma che cos’è la dialettica? Essa consiste nello svolgimento interno dello spirito, come soggetto che esce da sé alienandosi nella natura, per poi ritornare a sé raggiungendo la piena consapevolezza. Il problema della scissione tra finito e infinito, affrontato in chiave religiosa negli scritti giovanili attraverso la mediazione dell’amore, è ripreso nella Fenomenologia e risolto mediante il processo dialettico. Quest’ultimo consta di tre momenti – tesi, antitesi e sintesi – che segnano altrettante tappe del processo di dispiegamento dello spirito. Alla concezione schellinghiana dell’Assoluto come indifferenziato, che Hegel paragona a “una notte in cui tutte le vacche sono nere”, occorre sostituire una visione più dinamica, capace di render ragione della coesistenza di finito e infinito: “Dell’Assoluto si deve dire che è essenzialmente un Risultato, che solo alla fine esso è ciò che è in verità; e proprio in ciò consiste la sua natura, nell’essere […] svolgimento di se stesso”.
Il primo momento del processo dialettico, la tesi o affermazione, è il punto di partenza astratto; ad esso succede l’antitesi, che consiste nella negazione di ciò che era affermato nella tesi. Questa negazione non dà luogo però a una sterile opposizione, ma introduce e media il passaggio al terzo e decisivo momento, quello della sintesi: quest’ultima, attraverso una “negazione della negazione”, conduce a una riaffermazione della tesi che non ne è una semplice ripetizione, ma un arricchimento. La sintesi, infatti, ricomprende in sé anche l’opposizione di tesi e antitesi e segna un passo avanti in direzione della consapevolezza dello Spirito, il cui sviluppo coincide con lo sviluppo della realtà: “Lo Spirito del mondo ha avuto la pazienza […] di prendere su di sé l’immane fatica della storia universale, per riplasmare quindi in ciascuna forma […] il totale contenuto di se stesso”.
La verità coincide dunque con l’intero, e l’autentica conoscenza filosofica è quella che riesce a esporre il reale nella sua globalità dinamica. Nella Fenomenologia Hegel intende mostrare come la coscienza del soggetto si sviluppi gradatamente fino a giungere al sapere assoluto, con un processo scandito in tre tappe: coscienza (tesi), autocoscienza (antitesi) e ragione (sintesi), ciascuna delle quali è a sua volta strutturata internamente in tre momenti. La coscienza è inizialmente ‘conoscenza sensibile’ di un oggetto specifico, da cui si passa alla ‘percezione’, e infine alla ‘conoscenza intellettuale’. In un secondo momento di sviluppo, la coscienza abbandona l’esteriorità per rivolgersi a se stessa, divenendo autocoscienza; ma ogni autocoscienza individuale ha la tendenza a porsi come assoluta, provocando una lotta che dà origine, fra l’altro, al rapporto dialettico fra servo e padrone. L’autocoscienza si sviluppa secondo tre figure: lo ‘stoicismo’, caratterizzato da una libertà astratta, lo ‘scetticismo’, che dà luogo a una sterile contrapposizione fra opinioni divergenti, e infine la ‘coscienza infelice’, che si esprime nella religiosità medievale. La coscienza infelice rappresenta la consapevolezza di un divario fra la coscienza umana mutevole e quella divina immutabile: tale divario non è superabile mediante l’ascetismo, ma solo riconoscendo il legame sostanziale fra uomo e Dio, all’interno di un processo panteistico di sviluppo dell’Assoluto.
Il terzo e conclusivo momento della Fenomenologia è infine la ragione, sintesi di coscienza e autocoscienza, che realizza l’unione di soggettività e oggettività, di pensiero e realtà. Anche questo momento conclusivo si articola in tre fasi: la ‘ragione osservativa’, caratteristica del naturalismo rinascimentale, la ‘ragione attiva’, che si esprime nel sentimentalismo romantico, e il ‘rigorismo della virtù’, che punta al trionfo della giustizia. La ragione si solleva infine allo spirito, in cui trovano risoluzione tutte le scissioni e le contraddizioni delle fasi precedenti. Lo sviluppo complessivo della Fenomenologia è riassumibile quindi nel seguente schema:
1) coscienza (conoscenza sensibile, percezione, intelletto);
2) autocoscienza (stoicismo, scetticismo, coscienza infelice);
3) ragione (ragione osservativa, ragione attiva, rigorismo della virtù)
La Fenomenologia, inizialmente destinata a fungere da introduzione al sistema hegeliano, verrà in seguito ricompresa all’interno del sistema stesso come uno dei momenti di sviluppo dello spirito soggettivo.

© Giovanni Scattone 2011

giovedì 5 maggio 2011

Francesco Crispi

Iscrittosi all’Università di Palermo, fondò il giornale letterario “L’Oreteo”, di ispirazione romantica. Laureatosi in legge, fu avvocato a Napoli. Scoppiato il ’48 a Palermo, fu uno dei capi dell’estrema sinistra autonomista. Tornata Palermo nelle mani dei Borboni (maggio 1849) emigrò in Piemonte, dove scrisse “Ultimi casi della rivoluzione siciliana” (1850). Partecipò al fallito tentativo insurrezionale mazziniano di Milano (6-2-1853), fu esiliato a Malta dove fondò il giornale “La valigia”. Espulso anche da Malta, andò a Londra nel 1855 dove collaborò con Mazzini e pubblicò il saggio “Ordinamenti politici delle due Sicilie”. Vicino al mazzinianesimo, nel 1859 condannò la guerra regia, recandosi segretamente in Sicilia per prepararvi l’insurrezione; Crispi fu in effetti la mente politica della spedizione garibaldina dei Mille.
Fu spesso in contrasto con i moderati cavouriani e, dal 1861, fu uno dei maggiori esponenti della sinistra nel nuovo parlamento italiano. Convintosi che la monarchia era divenuta ormai simbolo dell’unità nazionale, Crispi si allontanò dalle idee repubblicane di Mazzini e sostenne (1864) che “la monarchia ci unisce, la repubblica ci dividerebbe”. Crispi aderì dunque al regime sabaudo, pur rimanendo nelle file della sinistra, di cui il suo giornale “La riforma” fu uno degli organi principali.
Caduta la Destra (1876) divenne presidente della Camera. Larga risonanza ebbe il viaggio che egli fece a Berlino (1877) per incontrarvi il cancelliere germanico Bismarck (per il quale aveva molta ammirazione). Ministro dell’interno nel governo Depretis (1877), Crispi dovette dimettersi nel marzo 1878 perché accusato di bigamia (avendo sposato nel 1877 Lina Barbagallo con rito civile mentre era ancora in vita Rosalia Montmasson con cui aveva contratto matrimonio religioso nel 1854): dall’accusa sarà comunque prosciolto.
Già in quegli anni, segnati da delusioni in politica estera, Crispi cominciava ad apparire come “l’uomo forte” atteso da una vasta cerchia di opinione pubblica, da esponenti del patriottismo risorgimentale e da poeti come Carducci. Vasta eco ebbe pertanto il suo ritorno al governo nel 1887, prima come ministro dell’interno e poi come presidente del consiglio. Cercò di ammodernare e di rendere più funzionale lo stato: furono emanate nuove leggi sulla pubblica sicurezza, sulle amministrazioni locali (elettività dei sindaci), sulle opere di beneficenza (con un maggior controllo statale su di esse).
In politica estera Crispi fu favorevole alla Triplice Alleanza (con Austria e Germania) e contrario all’irredentismo e alla Francia (“guerra doganale” con i francesi, disastrosa per l’economia italiana). Promosse l’espansione coloniale, cercando di estendere il protettorato italiano a tutta l’Abissinia (trattato di Uccialli con il negus Menelik, 1889). In Italia furono quelli anni di grave crisi economica (miseria diffusa, cresciuta emigrazione, crolli bancari e finanziari). Strati popolari e borghesia del settentrione contestarono duramente il governo di Crispi, accusato di megalomania. Il governo Crispi cadde nel 1891, ma due anni dopo fu invocato il suo ritorno (fine 1893) in un momento di crisi drammatica: in Sicilia era cominciato il moto dei Fasci siciliani dei lavoratori, mentre il mondo politico era investito dallo scandalo della banca romana.
Riassunta la presidenza del consiglio, Crispi represse il moto dei Fasci mediante l’impiego dell’esercito e dello stato d’assedio; nel 1894 una legge decretò lo scioglimento di qualunque “associazione sovversiva”, fra cui persino il partito socialista. Fu ammessa la possibilità dello sciopero, ma Crispi sostenne sempre che le rivendicazioni operaie dovevano restare strettamente nell’ambito della legalità, che era alla base del regime liberale e capitalistico.
Contro il “reazionario” governo Crispi si schierò la coalizione di tutte le forze di sinistra, dai radicali ai socialisti; infine il disastro militare di Adua (1-3-1896) portò al tramonto di Crispi. Successivamente l’autoritario Crispi acquisterà per le correnti nazionalistiche e per il fascismo un valor di simbolo e di precursore.

© Giovanni Scattone 2011

domenica 1 maggio 2011

Heidegger

Martin Heidegger (1889-1976) è nato a Messkirch, nel Baden, ed è stato allievo di Rickert e di Husserl. La sua opera più nota, Essere e tempo, è incentrata sull’analisi dell’esistenza individuale umana: l’uomo, infatti, è detentore di un primato, di una superiorità ontologica sugli altri enti, perché è l’unico capace di porre e di porsi delle domande. La specificità della condizione umana è indicata da Heidegger con il termine Dasein (Esserci): “Questo ente, che noi stessi sempre siamo, e che, fra l’altro, ha quella possibilità di essere che consiste nel porre il problema, lo designiamo col termine Esserci”. Nello studio dell’esistenza umana le varie discipline scientifiche hanno un valore limitato e circoscritto: “La psicologia filosofica, l’antropologia, l’etica, la politica, la poesia, la biografia, la narrativa storica hanno indagato, per vie diverse e con ampiezza mutevole, i comportamenti, le facoltà, le forze, le possibilità e i destini dell’Esserci”. Più originaria e fondamentale rispetto alle ricerche delle scienze positive è la ricerca ontologica, che prende in esame il senso dell’essere in generale. Attraverso un lavoro interpretativo, o ermeneutico, questa ricerca ontologica coglierà l’intima relazione fra essere e tempo, mostrando che la temporalità è “l’orizzonte di ogni comprensione e di ogni interpretazione dell’essere”, è il senso profondo del nostro Esserci.
Con un linguaggio spesso oscuro, Heidegger riprende in Essere e tempo il millenario dibattito della metafisica occidentale sul concetto di essere. A suo avviso la storia della metafisica, da Platone a Nietzsche, non è altro che la storia di un fraintendimento, di un oblio dell’essere: quest’ultimo, infatti, è stato inteso come “semplice presenza”, ossia come essere presente in un dato spazio e in un dato tempo, dimenticando così la specificità del modo d’essere caratteristico dell’uomo. La struttura dell’esistenza umana è data invece, per Heidegger, dall’intenzionalità, dal tendere verso l’altro: l’essere dell’uomo non è quindi “semplice presenza”, ma è innanzitutto un progetto temporalmente rivolto verso il futuro. La condizione umana è caratterizzata inoltre dalla finitezza, sia perché la morte è l’unica possibilità ineludibile, sia soprattutto perché il singolo si trova “gettato” nel mondo, in una determinata condizione storica, con la quale si trova a dover fare i conti senza averla potuta scegliere.
Il compito fondamentale della filosofia, per l’Heidegger di Essere e tempo, consiste quindi nel riportare alla luce, nello svelare il senso autentico dell’essere, celato dalle incrostazioni della metafisica: “Di regola accade che un fenomeno, un tempo scoperto, risulta ancora visibile, benché solo come parvenza. [...] Questo ricoprimento nel senso di ‘travestimento’ è il più diffuso e il più nocivo, perché vi si radicano in modo particolare le possibilità dell’inganno e dello sviamento”.
Secondo l’iniziale progetto di Heidegger, Essere e tempo doveva proseguire con una parte specificamente dedicata alla temporalità come senso dell’essere in generale: questa parte non sarà però mai scritta, anche a causa dell’impossibilità di trattare l’argomento con il linguaggio della metafisica tradizionale. Da qui l’esigenza di una svolta, cominciata con lo scritto Sull’essenza della verità (pubblicato nel 1943, ma composto già nel 1930), che porterà Heidegger a individuare nel rapporto fra essere e linguaggio il problema fondamentale della filosofia. Intanto, però, Hitler era giunto al potere e nel 1933 Heidegger, nominato rettore dell’Università di Friburgo, pronunciò una prolusione dal titolo L’autoaffermazione dell’Università tedesca, nella quale alcuni interpreti hanno ravvisato i segni tangibili di una sua piena adesione al regime nazista. Abbandonato l’incarico di rettore l’anno successivo e allontanatosi da ogni impegno politico, Heidegger continuò la sua intensa attività di studioso; non avendo però mai preso posizione contro il nazismo, al termine della seconda guerra mondiale fu messo sotto accusa e sospeso dall’insegnamento per alcuni anni.
Nella famosa Lettera sull’umanismo, scritta nel 1946, Heidegger afferma che “il linguaggio è la casa dell’essere. Nella sua dimora abita l’uomo. I pensatori e i poeti sono i custodi di questa dimora. [...] La liberazione del linguaggio dalla grammatica per inserirlo in una struttura essenziale più originaria tocca al pensare e al poetare”. La ricerca di un nuovo linguaggio che possa esprimere il superamento della metafisica tradizionale conduce a un rovesciamento di prospettiva: non è più un presunto ‘soggetto umano’ che svela l’essere, ma è l’essere che si manifesta attraverso il linguagio; l’uomo non è più un soggetto parlante, ma è egli stesso ‘parlato’ dal linguaggio e il suo compito è “di custodire la verità dell’essere. L’uomo è il pastore dell’essere”. Ma l’essere non è riducibile agli enti, alle cose del mondo: esso è l’orizzonte temporale, la radura (Lichtung) al cui interno gli enti possono manifestarsi, cosicché fra l’essere – dinamicamente inteso come ‘evento’ – e gli enti nella loro staticità sussiste una radicale differenza ontologica. Nella Lettera sull’umanismo Heidegger prende inoltre le distanze dall’esistenzialismo di Sartre e, in nome della centralità dell’essere, qualifica gli sviluppi della propria filosofia come antiumanistici.
Notevole interesse e svariate interpretazioni ha suscitato infine una lunga intervista da lui concessa al settimanale Der Spiegel, in cui afferma tra l’altro che “la filosofia non potrà produrre nessuna immediata modifica dello stato attuale del mondo. E questo non vale soltanto per la filosofia, ma anche per tutto ciò che è mera intrapresa umana. Ormai solo un Dio ci può salvare”.

© Giovanni Scattone 2011

Wittgenstein

Nato a Vienna, Ludwig Wittgenstein (1889-1951) studiò ingegneria nelle Università di Berlino e Manchester, ma abbandonò questi studi per trasferirsi a Cambridge, dove si dedicò all’analisi dei fondamenti logici della matematica, sotto la guida di Russell. Durante la prima guerra mondiale si arruolò come volontario nell’esercito austriaco, ma fu catturato dagli italiani e imprigionato a Cassino. In questo periodo scrisse la sua opera fondamentale, il Tractatus logico-philosophicus, che fu pubblicato in tedesco nel 1921 e l’anno successivo in inglese, con una prefazione di Russell. Dal 1920 al 1926 Wittgenstein si dedicò all’insegnamento elementare in Austria, ma nel 1929 fece ritorno a Cambridge, dove insegnò filosofia all’Università fino al 1947. Tra i numerosi scritti pubblicati postumi vanno ricordate le Ricerche filosofiche, la Grammatica filosofica e Della certezza.
Il problema fondamentale affrontato nel Tractatus è quello relativo alla natura del linguaggio e del significato: Wittgenstein esamina in che modo la struttura del nostro linguaggio determina ciò di cui è possibile parlare e ciò su cui invece si può solo tacere. Il linguaggio è la totalità delle proposizioni ed è il veicolo del nostro pensiero: la struttura del linguaggio rispecchia quella della realtà. Le proposizioni sono divisibili in tre classi: a) In primo luogo, vi sono le proposizioni ‘dotate di senso’ (sinvoll), che parlano del mondo e possono essere vere o false a seconda di ciò che accade. Ad esempio, la proposizione “sta piovendo” è vera se effettivamente in questo momento sta cadendo la pioggia, falsa se il cielo è terso: si può quindi affermare che “il senso della proposizione è la sua concordanza o discordanza con le possibilità del sussistere e non sussistere degli stati di cose”. b) In secondo luogo, vi sono quelle proposizioni la cui verità o falsità può essere stabilita mediante il semplice esame della loro forma logica, senza bisogno di un confronto con l’esperienza. Si tratta da un lato delle tautologie, che sono sempre vere indipendentemente da ciò che accade (ad esempio, la proposizione “o piove o non piove” è vera a prescindere dalle reali condizioni meteorologiche), e dall’altro delle contraddizioni, che sono invece sempre false (ad esempio, “piove e non piove”). Secondo Wittgenstein la logica e la matematica sono formate appunto da proposizioni che, come le tautologie e le contraddizioni, non parlano del mondo ma mostrano la struttura logica del linguaggio. c) In terzo luogo, infine, vi sono le proposizioni che non sono né tautologie o contraddizioni, né enunciati confrontabili con la realtà: si tratta di pseudo-proposizioni ‘insensate’(unsinnig), come quelle della filosofia tradizionale e della metafisica. Per il Wittgenstein del Tractatus la filosofia non è una dottrina ma un’attività, consistente essenzialmente nel chiarire il linguaggio: “Il metodo corretto della filosofia sarebbe propriamente questo: nulla dire se non ciò che può dirsi; dunque, proposizioni della scienza naturale, [...] e poi, ogni volta che altri voglia dire qualcosa di metafisico, mostrargli che a certi segni nelle sue proposizioni egli non ha dato significato alcuno”.
Per Wittgenstein il mondo consiste nella totalità dei fatti: esso è una struttura logica formata da ciò che è contingente, ossia da ciò che può essere vero o falso. Le proposizioni sensate rappresentano i fatti, ed è quindi il confronto con essi che ci dice quali proposizioni sono vere e quali false. Tuttavia, il linguaggio non è un’immagine pittorica della realtà, ma ne è un modello: ad esempio, mentre una fotografia assomiglia alla persona che vi è ritratta, la parola “mela” non assomiglia a una mela reale, ma si limita a rappresentarla, costituendone un modello. Se le proposizioni dotate di senso, che possono essere vere o false, parlano del mondo, le tautologie e le contraddizioni non ‘dicono’ niente: esse ‘mostrano’ la struttura formale che linguaggio e mondo hanno in comune. Le proposizioni ‘insensate’ della filosofia e dell’etica, infine, tentano di dire l’indicibile; lo stesso Tractatus, che affronta problemi schiettamente filosofici, è paragonato da Wittgenstein a una scala che dobbiamo gettare dopo averla usata: “Le mie proposizioni illustrano così: colui che mi comprende, infine le riconosce insensate, se è salito per esse – su esse – oltre esse. (Egli deve, per così dire, gettar via la scala dopo che vi è salito)”. Il Tractatus si conclude con la perentoria affermazione per cui “su ciò, di cui non si può parlare, si deve tacere”. Il senso della vita e tutto ciò che è più profondo e più importante supera i limiti del dicibile: “Noi sentiamo che, anche una volta che tutte le possibili domande scientifiche hanno avuto risposta, i nostri problemi vitali non sono ancora neppure toccati. Certo allora non resta più domanda alcuna; e appunto questa è la risposta. La risoluzione del problema della vita si scorge allo sparir di esso”.
Il Tractatus è l’unica opera, a parte le Note sulla forma logica e qualche altro scritto minore, pubblicata in vita da Wittgenstein. Egli lasciò peraltro una notevole quantità di appunti e anche un testo quasi pronto per la stampa, le Ricerche filosofiche; esse furono pubblicate però solo nel 1953, due anni dopo la morte dell’autore. In quest’opera sono riprese, sviluppate e talvolta criticate numerose tesi del Tractatus, e viene introdotta la nozione di gioco linguistico. La parte iniziale delle Ricerche filosofiche sviluppa una critica alla concezione che vede nel linguaggio soltanto un insieme di nomi denotanti oggetti del mondo; questa concezione, che Wittgenstein fa risalire a S.Agostino ma che ha influenzato anche l’impostazione del Tractatus, è legata al procedimento della ‘definizione ostensiva’, che consiste nel definire che cos’è, ad esempio, una borsa indicandone appunto una e contemporaneamente dicendo: “Quella è una borsa”. Wittgenstein osserva che la definizione ostensiva è un processo ambiguo perché, quando indico una borsa, chi mi osserva può pensare sia che mi stia riferendo alla borsa nel suo insieme, sia che io voglia invece indicare la fibbia della borsa, o il suo manico, o il suo colore, ecc. Il modo in cui guardiamo e percepiamo gli oggetti del mondo non dipende dalle definizioni ostensive, ma da un insieme di significati condivisi, dati dal modo in cui usiamo le parole. Il linguaggio non ha solo il compito di denominare oggetti, ma può svolgerne diversi: le parole hanno fra di loro funzioni differenti e il significato delle espressioni linguistiche si mostra nel loro uso. Per evidenziare le molteplici funzioni del linguaggio, Wittgenstein paragona quest’ultimo a un insieme di giochi che, come i membri di una stessa famiglia, hanno fra loro una somiglianza solo parziale: “Esistono [...] innumerevoli tipi differenti d’impiego di tutto ciò che chiamiamo ‘segni’, ‘parole’, ‘proposizioni’. E questa molteplicità non è qualcosa di fisso, di dato una volta per tutte; ma nuovi tipi di linguaggio, nuovi giochi linguistici [...] sorgono e altri invecchiano e vengono dimenticati”. Una parte delle Ricerche è dedicata infine all’analisi dei concetti di ‘regola’ e di ‘linguaggio privato’. I giochi linguistici, come tutti i giochi, hanno delle regole: ma che cosa significa seguire una regola? E come si fa a capire se si sta sbagliando nel seguire le regole di un gioco (linguistico) o se si sta invece giocando con regole diverse? Ancora una volta, l’unico riferimento possibile per rispondere a queste domande è l’uso del linguaggio: “Seguire una regola, fare una comunicazione, dare un ordine, giocare una partita a scacchi sono abitudini (usi, istituzioni)”. Indipendentemente dalle sue regole, un gioco linguistico non può mai essere un linguaggio privato, comprensibile solo all’individuo che lo utilizza; il linguaggio è infatti un’attività intrinsecamente intersoggettiva: “Nel linguaggio gli uomini concordano. E questa non è una concordanza delle opinioni, ma della forma di vita”.
Il pensiero di Wittgenstein ha esercitato una profonda influenza sulla filosofia del Novecento: il Tractatus è stato lungamente discusso dai membri del Circolo di Vienna ed è rimasto un punto di riferimento costante per la corrente di pensiero neopositivistica, mentre le Ricerche hanno influenzato soprattutto lo sviluppo della filosofia analitica nei paesi anglosassoni. La critica più recente ha sottolineato peraltro i numerosi aspetti di continuità fra le due opere principali di Wittgenstein, e la conoscenza di appunti e diari inediti ha consentito di comprendere meglio le linee di sviluppo del suo pensiero.

© Giovanni Scattone 2011

Schelling

Friedrich Wilhelm Joseph von Schelling (1775-1854) nacque a Leonberg, nel Württenberg, e studiò nel seminario protestante di Tubinga (il famoso Stift), dove strinse amicizia con Hegel. Fra i suoi primi scritti, influenzati dal pensiero di Fichte, vi sono le Lettere filosofiche su dogmatismo e criticismo, mentre nelle successive Idee per una filosofia della natura e soprattutto nel Sistema dell’idealismo trascendentale emerge appieno l’originalità della sua speculazione. Divenuto professore a Jena, partecipò al circolo romantico formatosi intorno a F.Schlegel; con Hegel curò inoltre la pubblicazione di un Giornale critico della filosofia. Allontanatosi da Jena e rotti i rapporti con Hegel, che lo aveva criticato nella prefazione alla Fenomenologia dello spirito, Schelling maturò una nuova fase del suo pensiero, caratterizzata da un accentuato interesse mistico-religioso, espresso ad esempio nelle Ricerche filosofiche sull’essenza della libertà umana. Fu presidente dell’Accademia delle scienze e dal 1841 insegnò a Berlino nella cattedra che era stata di Hegel. I suoi ultimi corsi universitari propongono, come alternativa teorica al sistema hegeliano, una “filosofia positiva”: essa è ampiamente esposta nella Filosofia della mitologia e nella Filosofia della rivelazione, opere pubblicate postume.
La filosofia di Schelling nasce da un esame critico dell’idealismo fichtiano, al quale si deve obiettare di aver relegato la natura in un ruolo subalterno; nelle Idee per una filosofia della natura l’idealismo è ritenuto capace, infatti, di rendere ragione non solo dello sviluppo della coscienza, ma anche di quello del mondo naturale. Influenzato dalle nuove scoperte nel campo della chimica e dei fenomeni organici, Schelling utilizza i concetti di attrazione, repulsione, polarità e potenziamento per interpretare filosoficamente la natura come un grande processo organico articolato su più livelli, corrispondenti ad altrettanti gradi dello spirito. Nel Sistema dell’idealismo trascendentale questa concezione è pienamente sviluppata, giungendo al massimo dell’astrazione e del rigore concettuale. Il punto di partenza di Schelling è in effetti l’Assoluto come coincidenza di io e non-io, di soggetto e oggetto, di consapevolezza e inconsapevolezza. All’interno di questa indistinzione originaria, lo spirito viene spiegato a partire dalla natura e viceversa, mentre l’Assoluto è definito come l’Identità originaria dell’identità e della differenza. Se è vero che natura e spirito sono del tutto simmetrici e paralleli – come l’estensione e il pensiero nel sistema di Spinoza – essi presuppongono però che all’interno dell’unità originaria dell’Assoluto si sia prodotta una distinzione. Risalire dalla molteplicità del finito all’unità dell’Assoluto è possibile soltanto con un’intuizione intellettuale mediata dall’esperienza artistica. L’arte è l’organo della filosofia come sapere dell’Assoluto: essa è espressione dell’infinito nel finito. L’Assoluto è infatti al tempo stesso sia natura che spirito: esprimendolo in forma razionale ci è possibile coglierlo solo in parte, mentre l’arte afferra l’Assoluto nella sua globalità, andando ben oltre i gradi iniziali del processo conoscitivo, rappresentati dalla sensazione, dalla riflessione e dalla volontà.
Il pensiero etico di Schelling riprende e sviluppa motivi kantiani e fichtiani, proponendo come supremo comandamento morale il seguente: “Agisci in modo che la tua volontà sia volontà assoluta; agisci in modo che l’intero mondo morale possa volere la tua azione (secondo la sua materia e forma); agisci in modo che nessun essere razionale sia posto dalla tua azione […] come semplice oggetto, bensì come soggetto cooperante”. Nell’ultima fase del suo pensiero Schelling attacca invece la filosofia moderna – soprattutto nella versione hegeliana – definendola come “filosofia negativa”, basata solo sulla logica e sulla dimostrazione. Ad essa va contrapposta una “filosofia positiva”, che sia capace non solo di cogliere l’essenza delle cose (il was, il concetto), ma anche l’esistente (il dass, il reale); tale filosofia positiva si articola in una filosofia della mitologia, in cui si rivela la natura di Dio, e in una filosofia della rivelazione, in cui Dio si manifesta pienamente nella sua libertà creatrice.

© Giovanni Scattone 2011

venerdì 29 aprile 2011

La pace di Versailles

La firma degli armistizi non portò subito la tranquillità in Europa.
In Germania un’insurrezione comunista fu soffocata nel sangue, mentre in Russia divampava la guerra civile. Anche in Italia furono numerose le rivolte operaie e contadine.
Nel gennaio 1919 si aprì a Parigi la conferenza di pace. Vi presero parte il presidente degli Stati Uniti (W.Wilson), i primi ministri inglese (Lloyd George), francese (Clemenceau) e italiano (Orlando), oltre a quelli degli stati minori. Non furono ammessi i rappresentanti degli stati vinti, perché gli anglo-francesi volevano una pace punitiva, nonostante le proposte moderate del presidente Wilson (i suoi “14 punti” si basavano sulla riduzione degli armamenti e sul principio di autodeterminazione dei popoli).
Il trattato di pace fu firmato a Versailles anche dai vinti tedeschi il 28-6-1919. La Germania cedette alla Francia l’Alsazia e la Lorena, perse il territorio polacco e tutte le colonie: dovette poi ridurre drasticamente l’esercito e impegnarsi a pagare un enorme risarcimento (269 miliardi di marchi-oro). L’embrionale sviluppo democratico della neonata repubblica tedesca ne risultò drammaticamente scosso.
I trattati di pace con le altre potenze sconfitte (Austria, Ungheria, Bulgaria, Turchia) cambiarono l’assetto dei Balcani. All’Italia andarono Trento, il sud Tirolo, Trieste e l’Istria, mentre nascevano all’est vari stati nuovi: Austria, Ungheria, Jugoslavia, Cecoslovacchia, Polonia, Lituania, Estonia, Lettonia.
Francia e Gran Bretagna si divisero il Vicino Oriente, sottratto alla Turchia; si divisero anche le ex colonie tedesche, tranne quelle in Estremo Oriente che andarono al Giappone.
La nascita della Società delle Nazioni (28-4-1919) non assicurò né la pace né un miglioramento delle relazioni internazionali, perché non vi parteciparono né l’Unione sovietica né gli Stati Uniti: essa finì così con il rappresentare i soli interessi franco-inglesi.

© Giovanni Scattone 2011

Napoleone III

Luigi Carlo Napoleone Bonaparte, terzogenito di Luigi Bonaparte d’Olanda, dopo il crollo dell’Impero napoleonico (1815) visse in esilio con la madre (Italia, Svizzera, Baviera). Legato in gioventù al mondo dei Carbonari (fu amico di Ciro Menotti), partecipò nel 1831 all’insurrezione della Romagna contro il papa. Scrisse opuscoli politici in cui proponeva di migliorare le condizioni delle classi popolari e tentò due volte di rovesciare Luigi Filippo (colpi di mano di Strasburgo, 1836, e di Boulogne, 1840, entrambi falliti). Fu condannato alla detenzione perpetua nella fortezza di Ham, da cui riuscì però a evadere sei anni dopo. Nel 1848 i moti rivoluzionari gli aprirono concrete possibilità politiche, poiché divenne ben presto un polo di attrazione per i sostenitori dell’ordine e del predominio borghese, e per le campagne (orientate prevalentemente in senso conservatore). Eletto deputato, fu vincitore assoluto nelle elezioni presidenziali del 10-12-1848 (con cinque milioni e mezzo di voti su sette milioni e mezzo di votanti). Ebbe l’appoggio dei conservatori e dei cattolici; ordinò pertanto la spedizione del generale Oudinot, che sconfisse la Repubblica romana (1849) riportando Pio IX a Roma,e sostenne la legge Falloux, che diede alla Chiesa il monopolio dell’istruzione primaria e secondaria in Francia. Il 2-12-1851 con un colpo di stato Napoleone prese il potere, facendo promulgare una nuova costituzione che gli attribuiva un potere presidenziale per 10 anni. Infine, con il plebiscito del 21-11-1852, la Repubblica fu trasformata in Impero e il presidente divenne imperatore con il nome di Napoleone III.
Il secondo impero vide una trasformazione economica della Francia (ascesa delle banche, costruzione di strade e ferrovie, sviluppo industriale, trasformazioni edilizie a Parigi ad opera del prefetto Haussmann). La politica interna di Napoleone III fu autoritaria: controllo della stampa, aumento della burocrazia, proibizione degli scioperi. In politica estera ebbe impulso l’espansione coloniale (Algeria, Senegal, Cocincina, Cambogia), mentre la Francia si alleava con l’Inghilterra (guerra di Crimea, 1854-56, condotta dai due paesi contro la Russia, in difesa della Turchia). Dopo un’alleanza militare con il Piemonte di Cavour, la Francia partecipò nel 1859 alla seconda guerra d’indipendenza contro l’Austria. La guerra fu vinta, ma Napoleone III si inimicò i cattolici, che volevano mantenere il potere temporale del papa. Il secondo impero francese andò trasformandosi gradualmente da autoritario in liberale (riconoscimento del diritto di sciopero, 1854, concessione di una parziale liertà di stampa, 1868, costituzione parlamentare, 8-5-1870).
Una spedizione in Messico (1862-67) volta a creare in quel paese una monarchia dipendente da Parigi si era intanto risolta in un clamoroso insuccesso; finché il colpo di grazia venne al secondo impero dalla guerra franco-prussiana, dichiarata proprio da Napoleone III il 19-7-1870 sotto la spinta dell’opinione pubblica francese, ferita dalle provocazioni del cancelliere tedesco Bismarck. Dopo la dura sconfitta francese a Sédan (1-9-1870) Napoleone III si consegnò prigioniero al re di Prussia Guglielmo I: liberato dalla prigionia l’anno successivo, prese dimora in Inghilterra, mentre in Francia il secondo impero aveva ceduto il posto alla terza repubblica.

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Israele e la questione mediorientale

All’origine della creazione dello stato d’Israele sono il movimento sionista e lo smembramento dell’impero ottomano. Con una celebre dichiarazione (2-11-1917) il ministro degli esteri britannico Balfour espresse la simpatia del suo governo per la creazione di uno stato ebraico. Poco dopo, l’entrata del generale inglese Allenby a Gerusalemme (11-12-1917) pose fine a quattro secoli di dominio ottomano in Terrasanta. Nei successivi 30 anni di mandato britannico sulla Palestina si ebbe la lenta formazione di uno stato ebraico. La crescente immigrazione di ebrei fu all’origine di rivolte arabe (1920-21, 1929, 1936-39), nonostante un formale accordo (1919) fra il capo dei sionisti Weizmann e l’emiro Faysal (che si era impegnato a consentire l’immigrazione ebrea). Nel 1933 l’Inghilterra promise agli arabi di formare uno stato palestinese, ma la seconda guerra mondiale e la Shoah indussero i 550000 ebrei – circa 1/3 della popolazione dell’intera Palestina – ad avanzare nuove rivendicazioni. Nel 1942 Ben Gurion, presidente dell’Agenzia ebraica (che rappresentava gli ebrei della Palestina), propose un programma mirante a formare uno stato ebraico indipendente. Dopo la fine della guerra l’incapacità inglese di assicurare la pace nella regione portò l’ONU a decidere (29-11-1947) di spartire la Palestina fra uno stato ebraico e uno arabo, rendendo Gerusalemme città internazionale. I palestinesi arabi rifiutarono l’accordo e cominciò un periodo di guerriglia. Il mandato britannico sulla Palestina cessò ufficialmente il 15-5-1948: il giorno prima Ben Gurion aveva proclamato lo stato d’Israele. La lega araba attaccò militarmente Israele, che riuscì però  respingere gli assalti finché si giunse al provvisorio armistizio di Rodi (luglio 1949).
Il governo di Israele fu guidato dal centro-sinistra, che riorganizzò l’esercito, istituì un apparato burocratico e una struttura scolastica unificata: intanto la popolazione ebraica aumentava. Nel 1952 Israele accettò le riparazioni offerte dalla RFT (35 miliardi di marchi) e si avvicinò decisamente agli Stati Uniti, mentre Stalin negli ultimi anni di regime si avvicinava ai paesi arabi in funzione antisemita.
Nel 1954 la tensione fra Egitto e Francia portò a un avvicinamento tra Parigi e Gerusalemme. La seconda guerra arabo-israeliana si concluse con la vittoria militare israeliana ma con un trionfo politico dell’Egitto, sostenuto da USA e URSS contro le pretese franco-inglesi. Negli anni successivi si accentuarono i conflitti interni a Israele tra gli immigrati di origine africana e orientale (sefarditi) e quelli di origine occidentale (ashkenaziti). La lotta politica crebbe di intensità e il leader fino allora indiscusso, Ben Gurion, dovette dimettersi dal premierato nel 1963. Il nuovo capo del governo, Eshkol, approfondì l’alleanza con USA ed Europa occidentale, ma dovette anche affrontare gravi problemi economici. Nel maggio 1967 il presidente egiziano Nasser annunciò la chiusura dello stretto di Tiran alle navi israeliane. Israele reagì (5-6-1967) attaccando Egitto, Giordania e Siria, sconfiggendole in soli sei giorni. Il nuovo primo ministro Golda Meir non seppe però sfruttare il notevole vantaggio territoriale ottenuto con la guerra dei sei giorni per risolvere finalmente il problema palestinese. Così negli anni Settanta le rivendicazioni dei palestinesi arabi volte a ottenere un loro stato indipendente cominciarono a raccogliere consensi anche in occidente.
Israele si trovò così politicamente isolata, in lotta con l’URSS e in posizione di subordinazione rispetto agli USA. Le armate israeliane si lasciarono sorprendere il 6-10-1973 (giorno del Kippur) da un attacco egiziano e siriano. L’attacco fu respinto dopo 16 giorni di lotta sanguinosa, ma sottolineò la debolezza dei 3 milioni di israeliani di fronte alla coalizione araba, appoggiata dall’URSS e capace di usare le riserve petrolifere come arma di ricatto economico contro i paesi occidentali sostenitori di Israele.
In Israele nuove tensioni socio-economiche furono provocate dallo sviluppo industriale e urbano, nonché dalle continue spese militari. Accettando un arretramento del confine nel Sinai, il nuovo governo Rabin riuscì a negoziare un accordo con l’Egitto (favorito dagli Stati Uniti). In politica interna Israele migliorò gli armamenti e aumentò le attività produttive, consentendo un notevole aumento del reddito nazionale e pro capite. Tuttavia una serie di scandali finanziari e l’incapacità di tenere a bada una serie di scioperi costrinsero Rabin a dimettersi (1976). Le nuove elezioni del maggio 1977 videro il Partito laburista perdere la maggioranza che aveva da trent’anni a favore di una coalizione di centro-destra guidata dal partito Likud capeggiato dal primo ministro Begin. Costui riuscì a rompere l’immobilismo israeliano: in politica interna controllando gli scioperi e mettendo in vendita le industrie nazionalizzate; in politica estera rinforzando l’alleanza con gli USA e avvicinandosi ad alcuni paesi arabi e africani. Nel 1977 Begin si accordò con il presidente egiziano Sadat, producendo una svolta nei rapporti con il maggior paese del mondo arabo.
Seguirono una serie di coalizioni di centro-destra guidate da Begin (1977-83) e Shamir (1983-84, poi 1986-92), poi nuovamente i laburisti con Rabin. Dalla fine del 1987 Israele dovette affrontare uno stato di rivolta semipermanente (intifada) nei territori palestinesi occupati. Il 13-9-1993 a Washington Israele e OLP hanno infine firmato una Dichiarazione di principi, che non ha però risolto il problema mediorientale.

© Giovanni Scattone 2011

mercoledì 27 aprile 2011

Which Responsibility towards Future Generations?

 
            1. The philosophical debate regarding the ‘rights of future generations’ has intensified during the past thirty years, due to increasing worries over the destiny of our ecosystem, which has become endangered by the consequences of human activity.  The most important right for future generations, recognised by many philosophers, is the right to a clean environment and, more generally, the right not to be physically harmed as a direct or indirect consequence of the actions of previous generations.  In fact, interest in the destiny of future generations is not exclusively of our time.  It is also possible to find this concern in the writings of numerous philosophers, ancient and modern, as well as in some religious traditions and political constitutions.
            For example, at the end of the eighteenth century, Kant dealt with two of the main problems that are still treated today in the philosophical debate about future generations.  The first issue involves what importance should be assigned to future persons when we ethically evaluate the foreseeable outcomes of our actions.  Kant maintained that we must not be indifferent even to the farthest age that humankind is destined to reach [1].  Moreover, this interest in posterity is implicit in the first formulation of the Kantian categorical imperative, which invites to act “so that the maxim of your will can always... hold good as a principle of universal legislation” [2].  Kant’s second concern with which principles of justice should be valid between generations is also evident in his disappointed remark that previous generations seem to work hard to the advantage only of future generations, without obtaining anything in return [3]. 
            In Judeo-Christianity, the religious tradition most familiar to us, there are many passages in the Old and New Testaments in which a conception of the relationship between man and nature is outlined.  Human beings are often depicted as fiduciary administrators designated by the Creator to take care of other living creatures in the best possible way and to preserve them as a heritage for future generations.  Karl Marx expressed a similar idea when he noted that not even all the peoples of a certain age considered together are the owners of the Earth; they are only usufructuaries, with a duty to transfer the Earth improved to the following generations [4].  Many ancient and modern constitutions make more or less explicit reference to future citizens.  It is enough to cite here the Constitution of the United States of America (1787), which begins  ‘(w)e, the People of the United States; in Order to … establish Justice … promote the general Welfare and secure the Blessings of Liberty to ourselves and our Posterity, do ordain and establish this Constitution’. 
At the beginning of the twentieth century, many utilitarian philosophers, in particular H. Sidgwick, maintained an important thesis indirectly related to future generations – that the passing of time is morally irrelevant.  In effect, Sidgwick observed that “the time at which a man exists cannot affect the value of his happiness from a universal point of view” [5].  Therefore, in the utilitarian calculation, pleasant sensations experienced by future persons will count as much as those felt by our contemporaries.  He added, however, that the effects of our actions on living persons are much more predictable than those on future individuals and it is necessary to consider this fact if we want to make a correct utilitarian calculation.

2. One of the main problems raised by the idea of our responsibility towards future generations is the following: is it possible to assign rights to them and, if so, then which ones?  Some authors on this subject have argued that it is not possible to attribute rights to future individuals not yet conceived and they support this thesis with a variety of arguments.  According to one argument, future persons cannot have rights because they are completely incapable of vindicating them.  However, this can be countered by the suggestion that the rights of future generations can be anticipated and defended by opportune representatives.  Moreover, it can be argued that it is possible to have rights even in the absence of the capacity to vindicate them (as is the case, for example, with the rights of newborn babies).  R. De George developed another argument that objects to the attribution of rights to future generations based on the ontological argument that ‘future generations’ by definition do not exist and “they cannot now, therefore, be the present bearer or subject of anything, including rights” [6].
It is possible however, to bypass this problem by attributing to future persons some rights that are contingent upon the effective existence of future generations. It can be asserted that if, and when, future people exist, they will have some rights.  Consequently, we must make every effort to ensure that these rights will not be violated in the future.  If we bequeath to future generations a natural environment that is unliveable and characterised by extremely scarce resources, we will thus make inevitable the future violation of their right to the minimal conditions of a decent life.
The right to life in relation to people not yet conceived poses an even greater challenge.  The expression ‘a future generations’ right to life’ can have at least two different meanings.  On the one hand, we can identify this right with the legitimate demand of future persons not to be wrongfully killed (after being born).  If intended in this sense, it seems that we do not have a problem with attributing a right to life to future generations. On the other hand, a future generations’ right to life can also be interpreted as a ‘right to be born’.  This refers to a future generations’ right to be conceived, a right of future persons not to be prevented from acquiring an actual existence. If interpreted in this second sense, the acknowledgement of a right to life for future generations would create very difficult problems.  In fact, if this right were contingent upon the existence of future generations (as all their rights seem to be), it would not be possible to violate it.  Actually, when we decide not to conceive a (future) person, we cannot violate his (or her) contingent right to be born because the consequence of our decision is that s/he will never exist.  The necessary condition for a specific person to have a right to be born will never arise as that condition is precisely his (or her) future existence.  Discussing the right to be born for future generations seems therefore to be a contradictio in adiecto.  Nevertheless, the possibility remains open that even if future generations have no right to be born, the present generation still has a moral duty not to prevent them from existing.  In other words, there could be a moral duty not to permit the extinction of the human race.  To maintain this thesis, however, we would have to reject the perfect correlation between rights and duties by admitting the existence of duties without corresponding rights on the part of others.

3. However, why should we care about future generations?  Why should we feel responsible for them?  Even if it could be established that we are, which criteria should guide us in the ethical evaluation of those decisions that can influence the destiny of future generations?
In light of the above considerations, I will examine four influential argumentative strategies inspired, respectively, by Aristotelian-Kantian deontological ethics, liberal theory of rights, utilitarian ethics, and contractarianism.  I will then briefly analyse the implications that these theories have on the problem of our responsibility towards future generations.

4. Perhaps the most ambitious attempt to discover the bases of our responsibility towards future generations has been developed by Hans Jonas, especially in his famous book Das Prinzip Verantwortung [7]. According to Jonas, modern technology makes men capable of influencing the entire ecosystem in a vast and durable way; as a consequence, we are led to rethink some ethical categories, first of all that of responsibility. In fact, while in the past the presence of mankind on earth was an original and unquestionable datum that we could not influence, such a presence has now become the primary object of our moral obligation.
Jonas proposes a new categorical imperative: “Act in a way such that the effects of your action are compatible with the permanence of genuine life on earth” [8]. That means that we must not be taken in by the promises of modern technology: we have to pay attention, instead, to the possible negative consequences of our actions, in order not to cause them; in particular, we must not treat the existence or the essence of man globally intended, as something on which we have a right to gamble by our actions. The extinction of mankind, in fact, is such a terrible risk that even the smallest possibility of its realisation is a price too high to be worth paying.
But what is the grounding of our duty towards not-yet-existing people? Jonas’ reply is that we are responsible towards the idea or the essence of man; even more radically, we have a primary duty towards the being and against non-being. So, the ultimate grounding of our responsibility towards future generations is to be found – according to Jonas – only in the metaphysics as a doctrine of being.
The profundity of Jonas’ theory is, in my opinion, also its limitation. In effect, Jonas explicitly presents his ‘planetary macroethics of responsibility’ as a proposal that everybody has to accept and practice in order to prevent a catastrophic future. But it seems extremely difficult to find a vast consensus on the bases of such strong metaphysical theses as those of Jonas, inspired as they are by an Aristotelian teleology not acceptable to everybody.

5. It is difficult to find an ethical perspective concerning future generations that is shared by every ‘rights theorist’: rights-based ethical theories are very heterogeneous, and authors have therefore reached different conclusions. The main reference of the debate has generally been the theory proposed by R. Nozick in his book Anarchy, State and Utopia [9]. According to Nozick, every right is to be intended as a negative right not to receive interference by the State: rights like that will supply each and every individual with an inviolable sphere of personal freedom.
R. Elliot has suggested [10] that every libertarian theory that, like Nozick’s, accepts the ‘Lockean proviso’ – according to which the appropriation of something is legitimate if “enough and as well has been left for others” – will also be a theory that recognises extended obligations towards future generations. Nozick, explicitly referring to Locke, states that a particular appropriation is legitimate if it does not diminish available resources in such a way that the conditions of someone else are worsened. Such a thesis presupposes the notion of a minimum level of available goods that we must guarantee to others when taking possession of something; this minimum level is to be guaranteed to future generations as well, because we can recognise that even they have some (contingent) rights.
But a hard problem arises that every rights-based theory has to face, when treating questions related to future generations: the ‘non-identity problem’ [11]. This problem is connected with the fact that the identity of a future person depends, in a decisive way, on the exact moment in which s/he will be conceived; his (or her) identity, in fact, depends on the particular spermatozoon and egg-cell that will carry his (or her) genetic inheritance.
Let’s consider the following case of a handicapped child. Imagine that a woman (call her Paula) knows that she has an illness (for example, German measles), so that if she decides to conceive a child at that moment, before the end of her illness, her child will be born with a cardiac malformation that will cause him (or her) to die at the age of 35. If, on the contrary, Paula waits some weeks, she will have a (different) child without that handicap. Let’s also suppose that Paula decides, all the same, to conceive her child immediately and that the child will thus be born with a cardiac malformation, have an overall pleasant life, but die at 35 as a direct consequence of his (or her) handicap.
Whoever considers this case will be inclined to think that Paula has behaved in a morally wrong way. But if we start from the principle that the sole relevant considerations are rights-based, which objection will we able to raise against her behaviour? The child, in fact, has had an overall pleasant life, and if Paula had waited to conceive, her child would not have been born at all - in his (or her) place a different child, without the handicap, would have been born. If someone accused Paula of violating her child’s right to be born without handicaps, she would therefore reply that, all things considered, being born with the handicap has been better for her child than not being born at all. Even if the child had a legal representative to claim in advance his (or her) right not to be born handicapped, the representative would surely accept waiving that right.
Rights-based theories therefore imply that it would not be morally wrong to conceive a child with a serious handicap, even if waiting some weeks were sufficient to conceive a child without that handicap. All this should induce us to think that considerations based on rights only are not sufficient to handle cases where the influence on the identity of future people is involved.

6. The most efficacious way to solve this difficulty, this ‘non-identity problem’, is by accepting the doctrine of total utilitarianism. According to this ethical theory, what morally counts is carrying out those actions whose consequences are the maximisation of happiness (and minimisation of unhappiness) on earth, without taking into account which particular individuals will experience pleasant or unpleasant states of consciousness. If we accept this theory, it will be easy for us to explain why Paula’s choice is morally unacceptable: by conceiving a child with a grave handicap rather than another one without that handicap, Paula has taken an action that will probably lead to a decrease of happiness in the world.
Total utilitarianism, on the other hand, implies the following “repugnant conclusion. For any possible and large population, say of 8 billion, all with a very high quality of life, there must be some much larger imaginable population whose existence, if other things are equal, would be better, and be what we ought to bring about, even though its members have lives that are barely worth living” [12].
According to total utilitarianism, in fact, it is possible to increase happiness in the world not only by improving the quality of life of already existing people, but also by increasing the number of people. This implies the following: an increase in the number of people can compensate for a loss in the quality of life. It is this consequence which appears repugnant to many.
In order to avoid this conclusion, J. Narveson [13] has proposed a ‘restricted’ version of total utilitarianism. According to Narveson, when maximising total happiness, only existing people are to be taken into account: our purpose is rendering people happy and not increasing the number of (less) happy people. But Narveson’s theory does not solve the non-identity problem cited above and it has other problematic implications as well. It implies, for example, that we would not do anything wrong if we decided to conceive a child in spite of knowing that his (or her) life will only be pure suffering: in fact, pains and pleasures of not-yet-existing people are not to be taken into consideration, according to Narveson’s theory, at the moment of the decision.
The last possibility consists in falling back on some form of average utilitarianism, a theory according to which our actions must tend to maximise not the total happiness in the world but the average happiness experienced by existing people. Average utilitarianism, nevertheless, has at least two implausible implications:  a) it would be morally wrong, in a world where all the people are very happy, to conceive a foreseeably happy child if it were slightly less happy than the average level (because his/her birth would lower the average);  b) a world with a billion people suffering atrocious pains would be preferable to an alternative world where only two people exist, if the average suffering of these last ones were even slightly higher.
It seems, finally, that total utilitarianism, even if it implies a consequence considered repugnant by many, is still the variant of utilitarian theory which is the most suitable to solve ethical problems with a variable number of persons, as problems connected with future generations are. Moreover, total utilitarianism implies that the interests of present and future people are to be equally taken into consideration, as every generation has exactly the same possibility of contributing to the increase of total happiness in the world.

7. The last ethical theory that I want to examine with regard to future generations is neocontractarianism, in the form developed by J.Rawls in A Theory of Justice [14]. According to Rawls, the principles of justice that we must accept are those chosen by rational, free and self-interested parties operating in an ideal ‘original position’; these agents should act behind a ‘veil of ignorance’, which does not prevent them from acquiring information relevant to choosing fair principles, but does conceal from them the specific situation of the society where they will live and the particular role they will play in it. Moreover, Rawls postulates that parties in the original position do not know which generation they will belong to: this should guarantee that the principles of justice will not give advantage to one generation, to the detriment of the others.
Rawls says that parties called to choose the principles of justice are to be considered as contemporaries (‘present time of entry interpretation’). This implies that they cannot influence the ‘savings rate’ adopted in the past: therefore, whether or not predecessors have been generous towards them, it will be worthwhile for people in the original position to agree on rules not including savings for the benefit of future generations. As a consequence, Rawls is compelled to add a ‘motivational assumption’, according to which the agents in the original position are not to be considered as purely self-interested individuals but as representatives of family lines (for example ‘heads of family’), where ties of sentiments are present between successive generations. In this way, contracting parties will be interested in the destiny of future generations from the very beginning.
Putting aside any considerations about the ‘ad hoc’ character of the motivational assumption, we can ask ourselves how it is possible to establish precisely how much a head of family is ready to personally sacrifice to the advantage of his descendants. And if we do not exactly know which sacrifices he will be disposed to make, neither will we know which principles of intergenerational justice he will choose.

8. In conclusion, I would like to suggest that all of the theories just examined face serious difficulties in treating problems connected with future generations; but it seems that there are not theoretical obstacles preventing us, in principle, from granting to future people some (moral and legal) rights, and from adequately justifying our responsibility towards them. Moreover, the best method to deal with the problem of our duties to future generations does not consist, in my opinion, of starting from one of the traditional ethical theories and testing its ethical relevance to future people as well. This kind of method, adopted by most contemporary philosophers dealing with this subject, has in fact two flaws:  a) it needs a preliminary justification, that is not easy to produce, of the reason we have to choose a particular ethical theory rather than one of the many other ones existing at the moment;  b) it renders duties towards future generations entirely dependent on a specific ethical theory (that is, on its capacity to justify our concern for posterity).
As an alternative to this unsatisfactory way of dealing with the question, I propose reversing the point of view. We should start by asking ourselves what reasons there are to support the existence of moral duties towards future generations, independent of the acceptance of one or another ethical theory. If we succeed in demonstrating that such reasons exist, it will also become possible to test in depth the validity of a particular ethical theory. This will be done by verifying that theory is or is not capable of explaining those duties towards future generations whose importance had already been supported by independent reasons.
But which are these reasons? Which motives should induce us to think that members of the present generation have duties towards generations of the future? A promising line of argument is that of using a formal principle of equality, justified on the bases of the universalizability of moral judgements. In general terms, the principle of equality states that equal cases (or individuals) are to be ethically evaluated in the same way; or, putting it in negative terms, that it is not allowable to treat two cases (or individuals) differently in the absence of significant differences between them.
Many authors, as for example R. M. Hare [15] (who explicitely refers to Kant on this point), have observed that universalizability is a logical characteristic of moral judgements: if someone evaluates positively (or negatively) a certain A, he will then be bound – if he wants to avoid self-contradiction – to evaluate positively (or negatively) any other A that is similar to the first one in the relevant aspects (that is, those aspects inducing someone to evaluate A positively or negatively). And what reason can we have to evaluate differently the interests of people who will live in the future and those of already existing people?
In my opinion, the principal arguments supporting the thesis that we do not have any responsibility towards future generations, or at least that we should care much less for posterity than for our contemporaries, do not hold on a deep analysis. In fact, we can dispute these arguments as follows:
a)      To people insisting on the fact that future generations cannot claim their interests, we can reply that neither could patients in reversible coma or newborn babies: and that this impossibility does not prevent someone else from representing and looking after their interests.
b)      To people arguing that future individuals, as not existing, cannot have interests or rights, we can object that we can now attribute to future people some rights that are contingent upon their effective future existence; as a consequence, we already now have the moral (if not legal) duty to prevent those events that could render inevitable the future violation of such rights.
c)      To people thinking that we are not responsible towards future generations because we cannot foresee their preferences and tastes, we can reply that there are some fundamental needs (for example, a liveable environment) that even remote generations will have in common with us.
d)      To the supporters of a ‘discount rate’ that should be applied to the interests of future people, we can object that this conception has many problematic implications, as shown by D. Parfit [16] and other authors.
e)      To people claiming that our responsibility towards future generations could be eluded by preventing future generations from existing (by means of a total interruption of new births), we can object that any ethical theory taking account of possible people – for example, total utilitarianism – will invite us to think of the continuation of human enterprise on earth as morally obligatory (provided that life conditions of future people will not be foreseeably unacceptable).
The way for a satisfactory justification of our responsibility towards future generations seems therefore to be open.



APPENDIX

       Explicit references to future generations can be found in numerous international treaties and conventions regarding environmental protection. In the Stockholm Declaration (1972), is provided that “to defend and improve the environment for present and future generations has become an imperative goal for mankind”. The same document then declares that “natural resources of the earth, including the air, water, land, flora and fauna... must be safeguarded for the benefit of present and future generations”.
        Later, the Bern Convention on the Conservation of European Wildlife and Natural Habitats (1979) states that human beings ought to safeguard and transmit to future generations the natural heritage of wild plant and animal species. The Asian Agreement on the Conservation of Nature and Natural Resources (1985) recognises the importance of natural resources for present and future generations and imposes clear duties on the south-east Asian states parties.
         Other important international Conventions whose aim is to protect specific natural resources or environmental goods for the advantage of future generations deal with the following subjects:  a) marine environment (Kuwait Convention, 1978; Jeddah Convention, 1982; Cartagena de Indias Protocol, 1983);  b) natural resources (South Pacific Nature Convention, 1976);  c) water (Transboundary Waters Convention, 1992);  d) biological diversity (Biodiversity Convention, 1992);  e) climate (Climate Change Convention, 1992).
         Many international declarations make reference to intergenerational equity as an important aspect of the concept of sustainable development. Resolution 35/8 (1980) of the United Nations General Assembly establishes the existence of an “historical responsibility” towards future generations regarding the safeguard of natural environment, whereas Rio Declaration (1992) links intergenerational equity and the right to development, stating (principle 4) that the right to development must be satisfied in such a way that environmental and developmental needs of present and future generations are equally taken into account.
         The United Nations Environmental Program has probably influenced the recent tendency of some states to put in their constitutions specific articles concerning environmental protection. Among the states whose constitutions contain an explicit reference to future generations, are Brazil, Guyana, Iran and New Guinea, as well as four states of the United States of America (Hawaii, Illinois, Montana and Pennsylvania). The Brazilian constitution (1987), for example, establishes that “(e)veryone has a right to an ecologically balanced environment... This imposes upon the Public Authorities and the community the obligation to defend and preserve it for present and future generations”; the constitution of New Guinea (1980) states, at the end, that “(i)n the interest of the present and future generations, the State will protect and make rational use of its land, mineral and water resources, as well as its fauna and flora, and will take all appropriate measures to conserve and improve the environment”.




NOTES:

[1] See Kant, Idee zu einer allgemeinen Geschichte in weltbürgerlicher Absicht, thesis 8.

[2] Kant, Critik der praktischen Vernunft, I, I, 7 (translated by T.K.Abbott).

[3] See Kant, Idee..., cited above, thesis 3.

[4] See Marx, Das Kapital, book III.

[5] H.Sidgwick, The Methods of Ethics (MacMillan, London 1907), p.414.

[6] R.DeGeorge, The Environment, Rights and Future Generations, in K.Goodpaster, K.M.Sayre (eds.), Ethics and the Problems of 21th Century (Notre Dame U.P., Notre Dame Ind., 1979), p.95.

[7] H.Jonas, Das Prinzip Verantwortung (Inseg Verlag, Frankfurt a.M. 1979).

[8] Ibid., p.16.

[9] R.Nozick, Anarchy, State and Utopia (Basic Books, New York 1974).

[10] R.Elliot, “Future Generations, Locke’s Proviso and Libertarian Justice,” Journal of Applied Philosophy 3 (1986): 217-27.

[11] See J.Woodward, “The Non-Identity Problem,” Ethics 96 (1986): 804-31.

[12] D.Parfit, “Future Generations. Further Problems,” Philosophy and Public Affairs 11 (1982), p.142.

[13] See J.Narveson, Future People and Us, in R.I.Sikora, B.Barry (eds.), Obligations to Future Generations (Temple U.P., New York 1978): 38-60.

[14] J.Rawls, A Theory of Justice (Harvard U.P., Cambridge Mass. 1971).

[15] See R.M.Hare, Moral Thinking (Oxford U.P., New York 1981).

[16] See D.Parfit, Reasons and Persons (Clarendon Press, Oxford 1984), appendix F.


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© Giovanni Scattone 2011