sabato 21 maggio 2011

Hegel: la Fenomenologia

La filosofia hegeliana si sviluppa nel periodo storico che va dalla Rivoluzione francese alla Restaurazione; il giovane Hegel prende inizialmente le parti dei rivoluzionari e si atteggia criticamente nei confronti del conservatorismo politico e della religione positiva. Egli cerca una religione che non si incentri sul colloquio personale del singolo con Dio, ma che esprima immediatamente lo spirito del popolo nella sua unità, come avveniva nella religione della pòlis greca. Al tema illuministico della religione naturale, opposta a quelle positive effettivamente praticate, si lega così quello del ritorno a una grecità idealizzata. Nella Vita di Gesù la predicazione di Cristo è interpretata in termini kantiani come una religione del dovere: la purezza di questa dottrina si è tuttavia persa, dando origine al cristianesimo che conosciamo. Nell’opera Sullo spirito e il destino del cristianesimo, quest’ultimo è visto come un notevole passo avanti nei confronti dell’ebraismo: mentre il popolo ebraico ha proiettato nella religione la sua tendenza a separarsi dagli altri popoli, l’amore cristiano tende all’unione e riesce a conciliare l’opposizione fra il particolare (l’uomo) e l’universale (Dio).
Già in questi scritti teologici giovanili Hegel coglie negli avvenimenti storici significati speculativi e finalità che vanno oltre le intenzioni dei protagonisti: ma è nella Fenomenologia dello spirito che si esprime appieno la nozione hegeliana di verità quale totalità compiuta, che integra e ricomprende in sé come momenti le visioni parziali colte dall’intelletto. Al predominio kantiano dell’intelletto, Hegel sostituisce quello della ragione, che raggiunge l’assoluto: “L’universalità del sapere […] non è la solita indeterminatezza e meschinità del senso comune, ma conoscenza coltivata e compiuta”.
La forza di coesione fra le parti non è più vista da Hegel nell’amore: essa consiste piuttosto nella ragione, e nel movimento dialettico dello spirito. Ma che cos’è la dialettica? Essa consiste nello svolgimento interno dello spirito, come soggetto che esce da sé alienandosi nella natura, per poi ritornare a sé raggiungendo la piena consapevolezza. Il problema della scissione tra finito e infinito, affrontato in chiave religiosa negli scritti giovanili attraverso la mediazione dell’amore, è ripreso nella Fenomenologia e risolto mediante il processo dialettico. Quest’ultimo consta di tre momenti – tesi, antitesi e sintesi – che segnano altrettante tappe del processo di dispiegamento dello spirito. Alla concezione schellinghiana dell’Assoluto come indifferenziato, che Hegel paragona a “una notte in cui tutte le vacche sono nere”, occorre sostituire una visione più dinamica, capace di render ragione della coesistenza di finito e infinito: “Dell’Assoluto si deve dire che è essenzialmente un Risultato, che solo alla fine esso è ciò che è in verità; e proprio in ciò consiste la sua natura, nell’essere […] svolgimento di se stesso”.
Il primo momento del processo dialettico, la tesi o affermazione, è il punto di partenza astratto; ad esso succede l’antitesi, che consiste nella negazione di ciò che era affermato nella tesi. Questa negazione non dà luogo però a una sterile opposizione, ma introduce e media il passaggio al terzo e decisivo momento, quello della sintesi: quest’ultima, attraverso una “negazione della negazione”, conduce a una riaffermazione della tesi che non ne è una semplice ripetizione, ma un arricchimento. La sintesi, infatti, ricomprende in sé anche l’opposizione di tesi e antitesi e segna un passo avanti in direzione della consapevolezza dello Spirito, il cui sviluppo coincide con lo sviluppo della realtà: “Lo Spirito del mondo ha avuto la pazienza […] di prendere su di sé l’immane fatica della storia universale, per riplasmare quindi in ciascuna forma […] il totale contenuto di se stesso”.
La verità coincide dunque con l’intero, e l’autentica conoscenza filosofica è quella che riesce a esporre il reale nella sua globalità dinamica. Nella Fenomenologia Hegel intende mostrare come la coscienza del soggetto si sviluppi gradatamente fino a giungere al sapere assoluto, con un processo scandito in tre tappe: coscienza (tesi), autocoscienza (antitesi) e ragione (sintesi), ciascuna delle quali è a sua volta strutturata internamente in tre momenti. La coscienza è inizialmente ‘conoscenza sensibile’ di un oggetto specifico, da cui si passa alla ‘percezione’, e infine alla ‘conoscenza intellettuale’. In un secondo momento di sviluppo, la coscienza abbandona l’esteriorità per rivolgersi a se stessa, divenendo autocoscienza; ma ogni autocoscienza individuale ha la tendenza a porsi come assoluta, provocando una lotta che dà origine, fra l’altro, al rapporto dialettico fra servo e padrone. L’autocoscienza si sviluppa secondo tre figure: lo ‘stoicismo’, caratterizzato da una libertà astratta, lo ‘scetticismo’, che dà luogo a una sterile contrapposizione fra opinioni divergenti, e infine la ‘coscienza infelice’, che si esprime nella religiosità medievale. La coscienza infelice rappresenta la consapevolezza di un divario fra la coscienza umana mutevole e quella divina immutabile: tale divario non è superabile mediante l’ascetismo, ma solo riconoscendo il legame sostanziale fra uomo e Dio, all’interno di un processo panteistico di sviluppo dell’Assoluto.
Il terzo e conclusivo momento della Fenomenologia è infine la ragione, sintesi di coscienza e autocoscienza, che realizza l’unione di soggettività e oggettività, di pensiero e realtà. Anche questo momento conclusivo si articola in tre fasi: la ‘ragione osservativa’, caratteristica del naturalismo rinascimentale, la ‘ragione attiva’, che si esprime nel sentimentalismo romantico, e il ‘rigorismo della virtù’, che punta al trionfo della giustizia. La ragione si solleva infine allo spirito, in cui trovano risoluzione tutte le scissioni e le contraddizioni delle fasi precedenti. Lo sviluppo complessivo della Fenomenologia è riassumibile quindi nel seguente schema:
1) coscienza (conoscenza sensibile, percezione, intelletto);
2) autocoscienza (stoicismo, scetticismo, coscienza infelice);
3) ragione (ragione osservativa, ragione attiva, rigorismo della virtù)
La Fenomenologia, inizialmente destinata a fungere da introduzione al sistema hegeliano, verrà in seguito ricompresa all’interno del sistema stesso come uno dei momenti di sviluppo dello spirito soggettivo.

© Giovanni Scattone 2011

giovedì 5 maggio 2011

Francesco Crispi

Iscrittosi all’Università di Palermo, fondò il giornale letterario “L’Oreteo”, di ispirazione romantica. Laureatosi in legge, fu avvocato a Napoli. Scoppiato il ’48 a Palermo, fu uno dei capi dell’estrema sinistra autonomista. Tornata Palermo nelle mani dei Borboni (maggio 1849) emigrò in Piemonte, dove scrisse “Ultimi casi della rivoluzione siciliana” (1850). Partecipò al fallito tentativo insurrezionale mazziniano di Milano (6-2-1853), fu esiliato a Malta dove fondò il giornale “La valigia”. Espulso anche da Malta, andò a Londra nel 1855 dove collaborò con Mazzini e pubblicò il saggio “Ordinamenti politici delle due Sicilie”. Vicino al mazzinianesimo, nel 1859 condannò la guerra regia, recandosi segretamente in Sicilia per prepararvi l’insurrezione; Crispi fu in effetti la mente politica della spedizione garibaldina dei Mille.
Fu spesso in contrasto con i moderati cavouriani e, dal 1861, fu uno dei maggiori esponenti della sinistra nel nuovo parlamento italiano. Convintosi che la monarchia era divenuta ormai simbolo dell’unità nazionale, Crispi si allontanò dalle idee repubblicane di Mazzini e sostenne (1864) che “la monarchia ci unisce, la repubblica ci dividerebbe”. Crispi aderì dunque al regime sabaudo, pur rimanendo nelle file della sinistra, di cui il suo giornale “La riforma” fu uno degli organi principali.
Caduta la Destra (1876) divenne presidente della Camera. Larga risonanza ebbe il viaggio che egli fece a Berlino (1877) per incontrarvi il cancelliere germanico Bismarck (per il quale aveva molta ammirazione). Ministro dell’interno nel governo Depretis (1877), Crispi dovette dimettersi nel marzo 1878 perché accusato di bigamia (avendo sposato nel 1877 Lina Barbagallo con rito civile mentre era ancora in vita Rosalia Montmasson con cui aveva contratto matrimonio religioso nel 1854): dall’accusa sarà comunque prosciolto.
Già in quegli anni, segnati da delusioni in politica estera, Crispi cominciava ad apparire come “l’uomo forte” atteso da una vasta cerchia di opinione pubblica, da esponenti del patriottismo risorgimentale e da poeti come Carducci. Vasta eco ebbe pertanto il suo ritorno al governo nel 1887, prima come ministro dell’interno e poi come presidente del consiglio. Cercò di ammodernare e di rendere più funzionale lo stato: furono emanate nuove leggi sulla pubblica sicurezza, sulle amministrazioni locali (elettività dei sindaci), sulle opere di beneficenza (con un maggior controllo statale su di esse).
In politica estera Crispi fu favorevole alla Triplice Alleanza (con Austria e Germania) e contrario all’irredentismo e alla Francia (“guerra doganale” con i francesi, disastrosa per l’economia italiana). Promosse l’espansione coloniale, cercando di estendere il protettorato italiano a tutta l’Abissinia (trattato di Uccialli con il negus Menelik, 1889). In Italia furono quelli anni di grave crisi economica (miseria diffusa, cresciuta emigrazione, crolli bancari e finanziari). Strati popolari e borghesia del settentrione contestarono duramente il governo di Crispi, accusato di megalomania. Il governo Crispi cadde nel 1891, ma due anni dopo fu invocato il suo ritorno (fine 1893) in un momento di crisi drammatica: in Sicilia era cominciato il moto dei Fasci siciliani dei lavoratori, mentre il mondo politico era investito dallo scandalo della banca romana.
Riassunta la presidenza del consiglio, Crispi represse il moto dei Fasci mediante l’impiego dell’esercito e dello stato d’assedio; nel 1894 una legge decretò lo scioglimento di qualunque “associazione sovversiva”, fra cui persino il partito socialista. Fu ammessa la possibilità dello sciopero, ma Crispi sostenne sempre che le rivendicazioni operaie dovevano restare strettamente nell’ambito della legalità, che era alla base del regime liberale e capitalistico.
Contro il “reazionario” governo Crispi si schierò la coalizione di tutte le forze di sinistra, dai radicali ai socialisti; infine il disastro militare di Adua (1-3-1896) portò al tramonto di Crispi. Successivamente l’autoritario Crispi acquisterà per le correnti nazionalistiche e per il fascismo un valor di simbolo e di precursore.

© Giovanni Scattone 2011

domenica 1 maggio 2011

Heidegger

Martin Heidegger (1889-1976) è nato a Messkirch, nel Baden, ed è stato allievo di Rickert e di Husserl. La sua opera più nota, Essere e tempo, è incentrata sull’analisi dell’esistenza individuale umana: l’uomo, infatti, è detentore di un primato, di una superiorità ontologica sugli altri enti, perché è l’unico capace di porre e di porsi delle domande. La specificità della condizione umana è indicata da Heidegger con il termine Dasein (Esserci): “Questo ente, che noi stessi sempre siamo, e che, fra l’altro, ha quella possibilità di essere che consiste nel porre il problema, lo designiamo col termine Esserci”. Nello studio dell’esistenza umana le varie discipline scientifiche hanno un valore limitato e circoscritto: “La psicologia filosofica, l’antropologia, l’etica, la politica, la poesia, la biografia, la narrativa storica hanno indagato, per vie diverse e con ampiezza mutevole, i comportamenti, le facoltà, le forze, le possibilità e i destini dell’Esserci”. Più originaria e fondamentale rispetto alle ricerche delle scienze positive è la ricerca ontologica, che prende in esame il senso dell’essere in generale. Attraverso un lavoro interpretativo, o ermeneutico, questa ricerca ontologica coglierà l’intima relazione fra essere e tempo, mostrando che la temporalità è “l’orizzonte di ogni comprensione e di ogni interpretazione dell’essere”, è il senso profondo del nostro Esserci.
Con un linguaggio spesso oscuro, Heidegger riprende in Essere e tempo il millenario dibattito della metafisica occidentale sul concetto di essere. A suo avviso la storia della metafisica, da Platone a Nietzsche, non è altro che la storia di un fraintendimento, di un oblio dell’essere: quest’ultimo, infatti, è stato inteso come “semplice presenza”, ossia come essere presente in un dato spazio e in un dato tempo, dimenticando così la specificità del modo d’essere caratteristico dell’uomo. La struttura dell’esistenza umana è data invece, per Heidegger, dall’intenzionalità, dal tendere verso l’altro: l’essere dell’uomo non è quindi “semplice presenza”, ma è innanzitutto un progetto temporalmente rivolto verso il futuro. La condizione umana è caratterizzata inoltre dalla finitezza, sia perché la morte è l’unica possibilità ineludibile, sia soprattutto perché il singolo si trova “gettato” nel mondo, in una determinata condizione storica, con la quale si trova a dover fare i conti senza averla potuta scegliere.
Il compito fondamentale della filosofia, per l’Heidegger di Essere e tempo, consiste quindi nel riportare alla luce, nello svelare il senso autentico dell’essere, celato dalle incrostazioni della metafisica: “Di regola accade che un fenomeno, un tempo scoperto, risulta ancora visibile, benché solo come parvenza. [...] Questo ricoprimento nel senso di ‘travestimento’ è il più diffuso e il più nocivo, perché vi si radicano in modo particolare le possibilità dell’inganno e dello sviamento”.
Secondo l’iniziale progetto di Heidegger, Essere e tempo doveva proseguire con una parte specificamente dedicata alla temporalità come senso dell’essere in generale: questa parte non sarà però mai scritta, anche a causa dell’impossibilità di trattare l’argomento con il linguaggio della metafisica tradizionale. Da qui l’esigenza di una svolta, cominciata con lo scritto Sull’essenza della verità (pubblicato nel 1943, ma composto già nel 1930), che porterà Heidegger a individuare nel rapporto fra essere e linguaggio il problema fondamentale della filosofia. Intanto, però, Hitler era giunto al potere e nel 1933 Heidegger, nominato rettore dell’Università di Friburgo, pronunciò una prolusione dal titolo L’autoaffermazione dell’Università tedesca, nella quale alcuni interpreti hanno ravvisato i segni tangibili di una sua piena adesione al regime nazista. Abbandonato l’incarico di rettore l’anno successivo e allontanatosi da ogni impegno politico, Heidegger continuò la sua intensa attività di studioso; non avendo però mai preso posizione contro il nazismo, al termine della seconda guerra mondiale fu messo sotto accusa e sospeso dall’insegnamento per alcuni anni.
Nella famosa Lettera sull’umanismo, scritta nel 1946, Heidegger afferma che “il linguaggio è la casa dell’essere. Nella sua dimora abita l’uomo. I pensatori e i poeti sono i custodi di questa dimora. [...] La liberazione del linguaggio dalla grammatica per inserirlo in una struttura essenziale più originaria tocca al pensare e al poetare”. La ricerca di un nuovo linguaggio che possa esprimere il superamento della metafisica tradizionale conduce a un rovesciamento di prospettiva: non è più un presunto ‘soggetto umano’ che svela l’essere, ma è l’essere che si manifesta attraverso il linguagio; l’uomo non è più un soggetto parlante, ma è egli stesso ‘parlato’ dal linguaggio e il suo compito è “di custodire la verità dell’essere. L’uomo è il pastore dell’essere”. Ma l’essere non è riducibile agli enti, alle cose del mondo: esso è l’orizzonte temporale, la radura (Lichtung) al cui interno gli enti possono manifestarsi, cosicché fra l’essere – dinamicamente inteso come ‘evento’ – e gli enti nella loro staticità sussiste una radicale differenza ontologica. Nella Lettera sull’umanismo Heidegger prende inoltre le distanze dall’esistenzialismo di Sartre e, in nome della centralità dell’essere, qualifica gli sviluppi della propria filosofia come antiumanistici.
Notevole interesse e svariate interpretazioni ha suscitato infine una lunga intervista da lui concessa al settimanale Der Spiegel, in cui afferma tra l’altro che “la filosofia non potrà produrre nessuna immediata modifica dello stato attuale del mondo. E questo non vale soltanto per la filosofia, ma anche per tutto ciò che è mera intrapresa umana. Ormai solo un Dio ci può salvare”.

© Giovanni Scattone 2011

Wittgenstein

Nato a Vienna, Ludwig Wittgenstein (1889-1951) studiò ingegneria nelle Università di Berlino e Manchester, ma abbandonò questi studi per trasferirsi a Cambridge, dove si dedicò all’analisi dei fondamenti logici della matematica, sotto la guida di Russell. Durante la prima guerra mondiale si arruolò come volontario nell’esercito austriaco, ma fu catturato dagli italiani e imprigionato a Cassino. In questo periodo scrisse la sua opera fondamentale, il Tractatus logico-philosophicus, che fu pubblicato in tedesco nel 1921 e l’anno successivo in inglese, con una prefazione di Russell. Dal 1920 al 1926 Wittgenstein si dedicò all’insegnamento elementare in Austria, ma nel 1929 fece ritorno a Cambridge, dove insegnò filosofia all’Università fino al 1947. Tra i numerosi scritti pubblicati postumi vanno ricordate le Ricerche filosofiche, la Grammatica filosofica e Della certezza.
Il problema fondamentale affrontato nel Tractatus è quello relativo alla natura del linguaggio e del significato: Wittgenstein esamina in che modo la struttura del nostro linguaggio determina ciò di cui è possibile parlare e ciò su cui invece si può solo tacere. Il linguaggio è la totalità delle proposizioni ed è il veicolo del nostro pensiero: la struttura del linguaggio rispecchia quella della realtà. Le proposizioni sono divisibili in tre classi: a) In primo luogo, vi sono le proposizioni ‘dotate di senso’ (sinvoll), che parlano del mondo e possono essere vere o false a seconda di ciò che accade. Ad esempio, la proposizione “sta piovendo” è vera se effettivamente in questo momento sta cadendo la pioggia, falsa se il cielo è terso: si può quindi affermare che “il senso della proposizione è la sua concordanza o discordanza con le possibilità del sussistere e non sussistere degli stati di cose”. b) In secondo luogo, vi sono quelle proposizioni la cui verità o falsità può essere stabilita mediante il semplice esame della loro forma logica, senza bisogno di un confronto con l’esperienza. Si tratta da un lato delle tautologie, che sono sempre vere indipendentemente da ciò che accade (ad esempio, la proposizione “o piove o non piove” è vera a prescindere dalle reali condizioni meteorologiche), e dall’altro delle contraddizioni, che sono invece sempre false (ad esempio, “piove e non piove”). Secondo Wittgenstein la logica e la matematica sono formate appunto da proposizioni che, come le tautologie e le contraddizioni, non parlano del mondo ma mostrano la struttura logica del linguaggio. c) In terzo luogo, infine, vi sono le proposizioni che non sono né tautologie o contraddizioni, né enunciati confrontabili con la realtà: si tratta di pseudo-proposizioni ‘insensate’(unsinnig), come quelle della filosofia tradizionale e della metafisica. Per il Wittgenstein del Tractatus la filosofia non è una dottrina ma un’attività, consistente essenzialmente nel chiarire il linguaggio: “Il metodo corretto della filosofia sarebbe propriamente questo: nulla dire se non ciò che può dirsi; dunque, proposizioni della scienza naturale, [...] e poi, ogni volta che altri voglia dire qualcosa di metafisico, mostrargli che a certi segni nelle sue proposizioni egli non ha dato significato alcuno”.
Per Wittgenstein il mondo consiste nella totalità dei fatti: esso è una struttura logica formata da ciò che è contingente, ossia da ciò che può essere vero o falso. Le proposizioni sensate rappresentano i fatti, ed è quindi il confronto con essi che ci dice quali proposizioni sono vere e quali false. Tuttavia, il linguaggio non è un’immagine pittorica della realtà, ma ne è un modello: ad esempio, mentre una fotografia assomiglia alla persona che vi è ritratta, la parola “mela” non assomiglia a una mela reale, ma si limita a rappresentarla, costituendone un modello. Se le proposizioni dotate di senso, che possono essere vere o false, parlano del mondo, le tautologie e le contraddizioni non ‘dicono’ niente: esse ‘mostrano’ la struttura formale che linguaggio e mondo hanno in comune. Le proposizioni ‘insensate’ della filosofia e dell’etica, infine, tentano di dire l’indicibile; lo stesso Tractatus, che affronta problemi schiettamente filosofici, è paragonato da Wittgenstein a una scala che dobbiamo gettare dopo averla usata: “Le mie proposizioni illustrano così: colui che mi comprende, infine le riconosce insensate, se è salito per esse – su esse – oltre esse. (Egli deve, per così dire, gettar via la scala dopo che vi è salito)”. Il Tractatus si conclude con la perentoria affermazione per cui “su ciò, di cui non si può parlare, si deve tacere”. Il senso della vita e tutto ciò che è più profondo e più importante supera i limiti del dicibile: “Noi sentiamo che, anche una volta che tutte le possibili domande scientifiche hanno avuto risposta, i nostri problemi vitali non sono ancora neppure toccati. Certo allora non resta più domanda alcuna; e appunto questa è la risposta. La risoluzione del problema della vita si scorge allo sparir di esso”.
Il Tractatus è l’unica opera, a parte le Note sulla forma logica e qualche altro scritto minore, pubblicata in vita da Wittgenstein. Egli lasciò peraltro una notevole quantità di appunti e anche un testo quasi pronto per la stampa, le Ricerche filosofiche; esse furono pubblicate però solo nel 1953, due anni dopo la morte dell’autore. In quest’opera sono riprese, sviluppate e talvolta criticate numerose tesi del Tractatus, e viene introdotta la nozione di gioco linguistico. La parte iniziale delle Ricerche filosofiche sviluppa una critica alla concezione che vede nel linguaggio soltanto un insieme di nomi denotanti oggetti del mondo; questa concezione, che Wittgenstein fa risalire a S.Agostino ma che ha influenzato anche l’impostazione del Tractatus, è legata al procedimento della ‘definizione ostensiva’, che consiste nel definire che cos’è, ad esempio, una borsa indicandone appunto una e contemporaneamente dicendo: “Quella è una borsa”. Wittgenstein osserva che la definizione ostensiva è un processo ambiguo perché, quando indico una borsa, chi mi osserva può pensare sia che mi stia riferendo alla borsa nel suo insieme, sia che io voglia invece indicare la fibbia della borsa, o il suo manico, o il suo colore, ecc. Il modo in cui guardiamo e percepiamo gli oggetti del mondo non dipende dalle definizioni ostensive, ma da un insieme di significati condivisi, dati dal modo in cui usiamo le parole. Il linguaggio non ha solo il compito di denominare oggetti, ma può svolgerne diversi: le parole hanno fra di loro funzioni differenti e il significato delle espressioni linguistiche si mostra nel loro uso. Per evidenziare le molteplici funzioni del linguaggio, Wittgenstein paragona quest’ultimo a un insieme di giochi che, come i membri di una stessa famiglia, hanno fra loro una somiglianza solo parziale: “Esistono [...] innumerevoli tipi differenti d’impiego di tutto ciò che chiamiamo ‘segni’, ‘parole’, ‘proposizioni’. E questa molteplicità non è qualcosa di fisso, di dato una volta per tutte; ma nuovi tipi di linguaggio, nuovi giochi linguistici [...] sorgono e altri invecchiano e vengono dimenticati”. Una parte delle Ricerche è dedicata infine all’analisi dei concetti di ‘regola’ e di ‘linguaggio privato’. I giochi linguistici, come tutti i giochi, hanno delle regole: ma che cosa significa seguire una regola? E come si fa a capire se si sta sbagliando nel seguire le regole di un gioco (linguistico) o se si sta invece giocando con regole diverse? Ancora una volta, l’unico riferimento possibile per rispondere a queste domande è l’uso del linguaggio: “Seguire una regola, fare una comunicazione, dare un ordine, giocare una partita a scacchi sono abitudini (usi, istituzioni)”. Indipendentemente dalle sue regole, un gioco linguistico non può mai essere un linguaggio privato, comprensibile solo all’individuo che lo utilizza; il linguaggio è infatti un’attività intrinsecamente intersoggettiva: “Nel linguaggio gli uomini concordano. E questa non è una concordanza delle opinioni, ma della forma di vita”.
Il pensiero di Wittgenstein ha esercitato una profonda influenza sulla filosofia del Novecento: il Tractatus è stato lungamente discusso dai membri del Circolo di Vienna ed è rimasto un punto di riferimento costante per la corrente di pensiero neopositivistica, mentre le Ricerche hanno influenzato soprattutto lo sviluppo della filosofia analitica nei paesi anglosassoni. La critica più recente ha sottolineato peraltro i numerosi aspetti di continuità fra le due opere principali di Wittgenstein, e la conoscenza di appunti e diari inediti ha consentito di comprendere meglio le linee di sviluppo del suo pensiero.

© Giovanni Scattone 2011

Schelling

Friedrich Wilhelm Joseph von Schelling (1775-1854) nacque a Leonberg, nel Württenberg, e studiò nel seminario protestante di Tubinga (il famoso Stift), dove strinse amicizia con Hegel. Fra i suoi primi scritti, influenzati dal pensiero di Fichte, vi sono le Lettere filosofiche su dogmatismo e criticismo, mentre nelle successive Idee per una filosofia della natura e soprattutto nel Sistema dell’idealismo trascendentale emerge appieno l’originalità della sua speculazione. Divenuto professore a Jena, partecipò al circolo romantico formatosi intorno a F.Schlegel; con Hegel curò inoltre la pubblicazione di un Giornale critico della filosofia. Allontanatosi da Jena e rotti i rapporti con Hegel, che lo aveva criticato nella prefazione alla Fenomenologia dello spirito, Schelling maturò una nuova fase del suo pensiero, caratterizzata da un accentuato interesse mistico-religioso, espresso ad esempio nelle Ricerche filosofiche sull’essenza della libertà umana. Fu presidente dell’Accademia delle scienze e dal 1841 insegnò a Berlino nella cattedra che era stata di Hegel. I suoi ultimi corsi universitari propongono, come alternativa teorica al sistema hegeliano, una “filosofia positiva”: essa è ampiamente esposta nella Filosofia della mitologia e nella Filosofia della rivelazione, opere pubblicate postume.
La filosofia di Schelling nasce da un esame critico dell’idealismo fichtiano, al quale si deve obiettare di aver relegato la natura in un ruolo subalterno; nelle Idee per una filosofia della natura l’idealismo è ritenuto capace, infatti, di rendere ragione non solo dello sviluppo della coscienza, ma anche di quello del mondo naturale. Influenzato dalle nuove scoperte nel campo della chimica e dei fenomeni organici, Schelling utilizza i concetti di attrazione, repulsione, polarità e potenziamento per interpretare filosoficamente la natura come un grande processo organico articolato su più livelli, corrispondenti ad altrettanti gradi dello spirito. Nel Sistema dell’idealismo trascendentale questa concezione è pienamente sviluppata, giungendo al massimo dell’astrazione e del rigore concettuale. Il punto di partenza di Schelling è in effetti l’Assoluto come coincidenza di io e non-io, di soggetto e oggetto, di consapevolezza e inconsapevolezza. All’interno di questa indistinzione originaria, lo spirito viene spiegato a partire dalla natura e viceversa, mentre l’Assoluto è definito come l’Identità originaria dell’identità e della differenza. Se è vero che natura e spirito sono del tutto simmetrici e paralleli – come l’estensione e il pensiero nel sistema di Spinoza – essi presuppongono però che all’interno dell’unità originaria dell’Assoluto si sia prodotta una distinzione. Risalire dalla molteplicità del finito all’unità dell’Assoluto è possibile soltanto con un’intuizione intellettuale mediata dall’esperienza artistica. L’arte è l’organo della filosofia come sapere dell’Assoluto: essa è espressione dell’infinito nel finito. L’Assoluto è infatti al tempo stesso sia natura che spirito: esprimendolo in forma razionale ci è possibile coglierlo solo in parte, mentre l’arte afferra l’Assoluto nella sua globalità, andando ben oltre i gradi iniziali del processo conoscitivo, rappresentati dalla sensazione, dalla riflessione e dalla volontà.
Il pensiero etico di Schelling riprende e sviluppa motivi kantiani e fichtiani, proponendo come supremo comandamento morale il seguente: “Agisci in modo che la tua volontà sia volontà assoluta; agisci in modo che l’intero mondo morale possa volere la tua azione (secondo la sua materia e forma); agisci in modo che nessun essere razionale sia posto dalla tua azione […] come semplice oggetto, bensì come soggetto cooperante”. Nell’ultima fase del suo pensiero Schelling attacca invece la filosofia moderna – soprattutto nella versione hegeliana – definendola come “filosofia negativa”, basata solo sulla logica e sulla dimostrazione. Ad essa va contrapposta una “filosofia positiva”, che sia capace non solo di cogliere l’essenza delle cose (il was, il concetto), ma anche l’esistente (il dass, il reale); tale filosofia positiva si articola in una filosofia della mitologia, in cui si rivela la natura di Dio, e in una filosofia della rivelazione, in cui Dio si manifesta pienamente nella sua libertà creatrice.

© Giovanni Scattone 2011