domenica 1 maggio 2011

Heidegger

Martin Heidegger (1889-1976) è nato a Messkirch, nel Baden, ed è stato allievo di Rickert e di Husserl. La sua opera più nota, Essere e tempo, è incentrata sull’analisi dell’esistenza individuale umana: l’uomo, infatti, è detentore di un primato, di una superiorità ontologica sugli altri enti, perché è l’unico capace di porre e di porsi delle domande. La specificità della condizione umana è indicata da Heidegger con il termine Dasein (Esserci): “Questo ente, che noi stessi sempre siamo, e che, fra l’altro, ha quella possibilità di essere che consiste nel porre il problema, lo designiamo col termine Esserci”. Nello studio dell’esistenza umana le varie discipline scientifiche hanno un valore limitato e circoscritto: “La psicologia filosofica, l’antropologia, l’etica, la politica, la poesia, la biografia, la narrativa storica hanno indagato, per vie diverse e con ampiezza mutevole, i comportamenti, le facoltà, le forze, le possibilità e i destini dell’Esserci”. Più originaria e fondamentale rispetto alle ricerche delle scienze positive è la ricerca ontologica, che prende in esame il senso dell’essere in generale. Attraverso un lavoro interpretativo, o ermeneutico, questa ricerca ontologica coglierà l’intima relazione fra essere e tempo, mostrando che la temporalità è “l’orizzonte di ogni comprensione e di ogni interpretazione dell’essere”, è il senso profondo del nostro Esserci.
Con un linguaggio spesso oscuro, Heidegger riprende in Essere e tempo il millenario dibattito della metafisica occidentale sul concetto di essere. A suo avviso la storia della metafisica, da Platone a Nietzsche, non è altro che la storia di un fraintendimento, di un oblio dell’essere: quest’ultimo, infatti, è stato inteso come “semplice presenza”, ossia come essere presente in un dato spazio e in un dato tempo, dimenticando così la specificità del modo d’essere caratteristico dell’uomo. La struttura dell’esistenza umana è data invece, per Heidegger, dall’intenzionalità, dal tendere verso l’altro: l’essere dell’uomo non è quindi “semplice presenza”, ma è innanzitutto un progetto temporalmente rivolto verso il futuro. La condizione umana è caratterizzata inoltre dalla finitezza, sia perché la morte è l’unica possibilità ineludibile, sia soprattutto perché il singolo si trova “gettato” nel mondo, in una determinata condizione storica, con la quale si trova a dover fare i conti senza averla potuta scegliere.
Il compito fondamentale della filosofia, per l’Heidegger di Essere e tempo, consiste quindi nel riportare alla luce, nello svelare il senso autentico dell’essere, celato dalle incrostazioni della metafisica: “Di regola accade che un fenomeno, un tempo scoperto, risulta ancora visibile, benché solo come parvenza. [...] Questo ricoprimento nel senso di ‘travestimento’ è il più diffuso e il più nocivo, perché vi si radicano in modo particolare le possibilità dell’inganno e dello sviamento”.
Secondo l’iniziale progetto di Heidegger, Essere e tempo doveva proseguire con una parte specificamente dedicata alla temporalità come senso dell’essere in generale: questa parte non sarà però mai scritta, anche a causa dell’impossibilità di trattare l’argomento con il linguaggio della metafisica tradizionale. Da qui l’esigenza di una svolta, cominciata con lo scritto Sull’essenza della verità (pubblicato nel 1943, ma composto già nel 1930), che porterà Heidegger a individuare nel rapporto fra essere e linguaggio il problema fondamentale della filosofia. Intanto, però, Hitler era giunto al potere e nel 1933 Heidegger, nominato rettore dell’Università di Friburgo, pronunciò una prolusione dal titolo L’autoaffermazione dell’Università tedesca, nella quale alcuni interpreti hanno ravvisato i segni tangibili di una sua piena adesione al regime nazista. Abbandonato l’incarico di rettore l’anno successivo e allontanatosi da ogni impegno politico, Heidegger continuò la sua intensa attività di studioso; non avendo però mai preso posizione contro il nazismo, al termine della seconda guerra mondiale fu messo sotto accusa e sospeso dall’insegnamento per alcuni anni.
Nella famosa Lettera sull’umanismo, scritta nel 1946, Heidegger afferma che “il linguaggio è la casa dell’essere. Nella sua dimora abita l’uomo. I pensatori e i poeti sono i custodi di questa dimora. [...] La liberazione del linguaggio dalla grammatica per inserirlo in una struttura essenziale più originaria tocca al pensare e al poetare”. La ricerca di un nuovo linguaggio che possa esprimere il superamento della metafisica tradizionale conduce a un rovesciamento di prospettiva: non è più un presunto ‘soggetto umano’ che svela l’essere, ma è l’essere che si manifesta attraverso il linguagio; l’uomo non è più un soggetto parlante, ma è egli stesso ‘parlato’ dal linguaggio e il suo compito è “di custodire la verità dell’essere. L’uomo è il pastore dell’essere”. Ma l’essere non è riducibile agli enti, alle cose del mondo: esso è l’orizzonte temporale, la radura (Lichtung) al cui interno gli enti possono manifestarsi, cosicché fra l’essere – dinamicamente inteso come ‘evento’ – e gli enti nella loro staticità sussiste una radicale differenza ontologica. Nella Lettera sull’umanismo Heidegger prende inoltre le distanze dall’esistenzialismo di Sartre e, in nome della centralità dell’essere, qualifica gli sviluppi della propria filosofia come antiumanistici.
Notevole interesse e svariate interpretazioni ha suscitato infine una lunga intervista da lui concessa al settimanale Der Spiegel, in cui afferma tra l’altro che “la filosofia non potrà produrre nessuna immediata modifica dello stato attuale del mondo. E questo non vale soltanto per la filosofia, ma anche per tutto ciò che è mera intrapresa umana. Ormai solo un Dio ci può salvare”.

© Giovanni Scattone 2011