giovedì 31 marzo 2011

La cattività avignonese

Nel periodo della cosiddetta “cattività avignonese” (1309-77), Avignone fu sede del papato. Il trasferimento (1309) fu voluto da Clemente V che, incoronato a Lione, addusse come pretesto la turbolenza delle fazioni romane per stabilirsi ad Avignone. I papi di questo periodo furono sette, tutti francesi: Clemente V, Giovanni XXII, Benedetto XII, Clemente VI, Urbano V e Gregorio XI. Dopo un temporaneo ritorno di Urbano V a Roma (1367-70), la cattività avignonese si concluse solo nel 1377, anche per le esortazioni di Santa Caterina da Siena.
Questo periodo segnò il predominio della monarchia francese sul papa e rese prevalente l’elemento francese nel consiglio cardinalizio. Lo spettacolo del papa avignonese, ricco e potente, dimorante in un palazzo fortificato e circondato da una burocrazia spesso avida, incurante di una Roma derelitta, destò scandalo nei contemporanei e minò il prestigio del papato. Di qui anche l’origine dello scisma d’Occidente. La storiografia recente ha peraltro rivalutato quel periodo di storia ecclesiastica: alcuni papi furono indipendenti dalla monarchia francese e condussero una vita pia. Nel periodo della cattività, Avignone fu la prospera sede di una corte sfarzosa e di una rinomata Università, città internazionale e centro di attività bancarie e imprenditoriali. Gli italiani (specie fiorentini) che vi esercitavano i loro traffici avevano un quartiere loro riservato con particolari privilegi. Il mecenatismo dei papi protesse gli artisti (Petrarca) e abbellì la città di splendidi monumenti (palazzo dei papi).

© Giovanni Scattone 2011

martedì 29 marzo 2011

La seconda rivoluzione industriale

Con questa espressione ci si riferisce ai cambiamenti dell’economia capitalistica negli ultimi trent’anni dell’800. Fra il 1873 e il 1896 ci fu una fase di ristagno economico in Francia e Gran Bretagna, mentre crebbero Stati Uniti e Germania.
Nacquero le prime holdings (consociazioni per il controllo finanziario di più imprese), i cartelli (consorzi fra aziende dello stesso settore) e i trusts (concentrazioni di imprese prima indipendenti). Ad esempio negli Stati Uniti del 1880 la Standard Oil di Rockefeller controllava il 90% della produzione petrolifera nazionale, mentre in Germania il settore elettrico era tutto nelle mani del cartello Siemens-Aeg. Crebbero gli interventi statali nell’economia e il potere delle banche: molti stati, a partire dalla Germania di Bismarck, aumentarono i dazi doganali. La Gran Bretagna incrementò i rapporti commerciali con le colonie.
Alla fine dell’800 nell’agricoltura europea ci furono progressi: uso dei concimi chimici, primi macchinari,migliore irrigazione, nuove colture e rotazione delle coltivazioni. Queste migliorie interessarono però solo l’Europa nord-occidentale: l’agricoltura dei paesi dell’Est europeo e del mediterraneo rimase arretrata e basata sul latifondo. Con i progressi della navigazione a vapore arrivarono in Europa i prodotti agricoli USA a prezzi competitivi e ciò provocò negli anni ’80 una grave crisi dell’agricoltura europea. Cominciò così una forte emigrazione verso il Nord America.
In questo periodo (1870-1900) le principali scoperte furono: lampadina, ascensore elettrico, motore a scoppio, pneumatici, telefono, grammofono, macchina da scrivere, bicicletta, tram e automobile. Ciò era dovuto ai progressi nella fisica e nella chimica, e al crescente legame fra scienza e tecnologia. Le industrie che più si svilupparono furono la chimica, l’elettrica e quella dell’acciaio (una lega di ferro e carbonio). Nel 1892 fu introdotto in edilizia il cemento armato (calcestruzzo rinforzato con sbarre di ferro). L’industria chimica consentì di produrre carta, vetro, alluminio, concimi, medicinali, saponi, coloranti, gomma, ceramica ed esplosivi (Nobel inventò la dinamite nel 1875).
Se la prima rivoluzione fu caratterizzata dalla macchina a vapore, la seconda lo fu dal motore a scoppio e dall’elettricità. Le prime automobili furono prodotte all’inizio del Novecento. Nel 1879 Edison inventò la lampadina a filamento incandescente. Furono anche costruite centrali idroelettriche. Nel 1895 i fratelli Lumière inventarono il cinema.
I progressi della medicina si fondarono su: 1) migliore igiene; 2) sviluppo del microscopio; 3) progressi della farmacologia (aspirina, 1875); 4) costruzione di moderni ospedali.
Come conseguenza della seconda rivoluzione industriale aumentò la durata della vita media e ci fu un aumento demografico.

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Freud

Notevole influsso sulla filosofia del Novecento ha avuto la nascita della psicanalisi, legata alla figura di Sigmund Freud (1856-1939). Nato in Moravia ma vissuto principalmente a Vienna, questi espose il suo pensiero sulla natura dei fenomeni psichici in numerose opere, fra cui L’interpretazione dei sogni, Al di là del principio di piacere, L’Io e l’Es, Introduzione alla psicanalisi e Il disagio della civiltà.
La psicanalisi costituisce al tempo stesso un procedimento per l’indagine dei processi psichici e un metodo terapeutico per il trattamento dei disturbi nevrotici. Mentre la filosofia si limita al campo della coscienza, il metodo psicanalitico affronta anche l’esame dei fenomeni inconsci: “La distinzione dello psichico in cosciente e inconscio è il presupposto fondamentale della psicanalisi; essa soltanto le dà la possibilità di comprendere e inserire in una sistemazione scientifica i così frequenti e importanti processi patologici della vita psichica”. All’interno dell’apparato psichico umano Freud distingue fra Es, Io e Super-io. L’Es rappresenta il luogo delle pulsioni: “All’Es ci avviciniamo con paragoni e lo chiamiamo un caos, un calderone di eccitamenti ribollenti [...]. Cariche pulsionali che esigono la scarica: ecco tutto ciò che, a nostro parere, vi è nell’Es”. L’Io si costituisce invece per mediare tra la vita pulsionale interiore e il mondo esterno. Il Super-io infine ha la funzione di controllare e censurare le nostre azioni: esso è legato alle influenze culturali provenienti dai genitori, dagli insegnanti, o dalle credenze socialmente condivise.
L’Io ha il difficile compito di gestire l’insieme della vita psichica: “Un proverbio ammonisce di non servire contemporaneamente due padroni. Il povero Io ha la vita ancora più dura: serve tre padroni”, ossia l’Es, il mondo esterno e il Super-io. Le due pulsioni fondamentali che agiscono all’interno della psiche sono Eros, la pulsione di vita, che tende a stabilire unità e legami più vasti, e Thanatos, la pulsione di morte, che tende alla distruzione e a ricondurre la vita allo stato inorganico. Particolare importanza è attribuita da Freud alla sfera sessuale, intesa in senso lato, per la spiegazione delle nevrosi; di grande aiuto per la terapia è anche l’interpretazione dei sogni, basata sull’idea che quanto ricordiamo al risveglio non è che una maschera (il contenuto manifesto) dietro a cui si cela il vero senso del sogno (i pensieri onirici latenti). Lo scopo della terapia psicanalitica è di rafforzare l’io, nel corso di una serie di sedute in cui il paziente deve aprirsi al terapeuta con la massima sincerità: identificando l’analista con una figura importante del proprio passato (ad es. il padre), il paziente è in grado di ricordare esperienze traumatiche del passato, in particolare dell’infanzia, traendo giovamento da questa presa di coscienza.
Particolare scalpore suscitarono le tesi di Freud a proposito della vita sessuale, che a suo avviso comincia subito dopo la nascita e non con la pubertà. Nel corso dello sviluppo individuale della sessualità si succedono infatti una serie di tappe: a) orale, legata all’allattamento; b) sadico-anale, connessa con l’educazione alla pulizia; c) fallica; d) edipica; e) genitale, con il superamento del complesso edipico e l’ingresso nell’età adulta.
Una fase fondamentale dello sviluppo sessuale è segnata dal complesso di Edipo (dal nome del personaggio di Sofocle che si unisce inconsapevolmente alla propria madre): esso consiste nell’amore del bambino per la madre, contrastato dalla “castrante” presenza della figura paterna. Il complesso edipico è superato quando il figlio passa dal timore all’identificazione con il padre e trasferisce l’investimento affettivo dalla madre alla moglie.
In definitiva, per la psicanalisi freudiana solo una parte limitata della vita psichica è cosciente; un’indagine sull’inconscio è comunque possibile, individuando i meccanismi che conducono alla “rimozione” di certi contenuti dalla coscienza, ed esaminando alcuni fenomeni – come i sogni, le dimenticanze, i lapsus, ecc. – che gettano squarci di luce sui territori dell’inconscio.

© Giovanni Scattone 2011

domenica 27 marzo 2011

Schopenhauer

Negli scritti di Arthur Schopenhauer (1788-1860) si fondono in modo originale le  influenze della filosofia platonica, di quella kantiana e del pensiero indiano: ne risulta una dottrina complessa, venata di pessimismo e di irrazionalismo, e assai critica nei confronti degli idealisti tedeschi, soprattutto di Hegel.
Nato a Danzica, Schopenhauer ebbe modo di seguire le lezioni di Fichte a Berlino, e portò a termine gli studi universitari a Jena presentando un’importante dissertazione Sulla quadruplice radice del principio di ragion sufficiente. Divenne amico di Goethe e dell’orientalista Mayer, che lo invitò allo studio della filosofia indiana. Nel 1818 completò la sua opera principale, Il mondo come volontà e rappresentazione, che non riscosse però alcun successo. Due anni dopo ottenne la libera docenza a Berlino, ma la fama giunse solo molto più tardi, nel 1851, con la pubblicazione dei Parerga e paralipomena. Il tardivo successo del suo pensiero tendenzialmente pessimistico può forse venir collegato al contemporaneo fallimento degli ideali del 1848 e al graduale tramonto dell’influenza hegeliana.
Nell’opera Il mondo come volontà e rappresentazione la realtà circostante è vista come rappresentazione, ossia come percepita da un soggetto: “Tutto ciò che esiste per la conoscenza – dunque questo mondo intero – è solamente oggetto in rapporto al soggetto, intuizione di chi intuisce; in una parola, rappresentazione”. Si può pertanto distinguere fra il soggetto, che non è mai il contenuto di una rappresentazione ed è pura attività, e l’oggetto, che è invece il contenuto o materia della rappresentazione: nella percezione l’oggetto viene strutturato e determinato secondo le tre forme a priori, che sono lo spazio, il tempo e la causalità. Appare qui evidente l’eredità kantiana: “Le forme essenziali e perciò universali di ogni oggetto, le quali sono spazio, tempo e causalità, possono, muovendo dal soggetto, venir trovate e pienamente conosciute anche senza la conoscenza stessa dell’oggetto; il che val quanto dire, nel linguaggio di Kant, che esse stanno a priori nella nostra coscienza. L’aver ciò scoperto è un capitale merito di Kant”.
Diversamente da Kant, che concepiva le forme a priori come trascendentali, Schopenhauer ritiene che l’intelletto sia una funzione del cervello distinguibile dalla sensazione su basi biologiche. Egli vede inoltre nella causalità, con cui si pone un oggetto come determinante e un altro come determinato, il tramite che unisce lo spazio con il tempo: “Il cambiamento sopravveniente secondo la legge causale concerne ogni volta una determinata parte dello spazio e una determinata parte del tempo, simultaneamente e insieme. Quindi la causalità congiunge lo spazio col tempo”. Dal fatto che il mondo è rappresentazione e quindi fenomeno consegue l’impossibilità di cogliere le cose in sé con la normale attività conoscitiva, e  addirittura la difficoltà di discernere il sonno dalla veglia: “Il solo criterio sicuro per distinguere il sogno dalla realtà è invero quello affatto empirico del risveglio”. La distinzione kantiana fra fenomeno e cosa in sé va reinterpretata come quella fra apparenza e realtà; il fenomeno è paragonabile a un “velo di Maya” che bisogna strappare per vedere la realtà nella sua vera essenza.
La verità può essere colta soltanto col nostro corpo, perché esso ci consente di scoprire quella volontà di vita, unica e irrazionale, che è il motore e l’essenza non soltanto dell’uomo ma di tutto il reale. Solo il nostro corpo ci è dato al tempo stesso dall’esterno, come rappresentazione, e dall’interno, come volontà colta introspettivamente: “Al soggetto della conoscenza, il quale per la sua identità col proprio corpo ci si presenta come individuo, questo corpo è dato in due modi affatto diversi: è dato come rappresentazione nell’intuizione dell’intelletto, come oggetto fra oggetti, e sottomesso alle leggi di questi; ma è dato contemporaneamente anche in tutt’altro modo, ossia come quell’alcunché direttamente conosciuto da ciascuno, espresso dalla parola volontà [...]. Il corpo intero non è altro se non la volontà oggettivata, ossia divenuta rappresentazione”. La volontà, che costituisce l’essenza di ogni cosa, si particolarizza nel mondo dei fenomeni secondo le tre forme a priori (spazio, tempo e causalità), dando luogo in natura a una serie di gradi ascendenti, ciascuno dei quali va inteso come un’idea in senso platonico: “Per idea intendo ogni determinato ed immobile grado di obiettivazione della volontà, in quanto esso è cosa in sé, e sta quindi fuori della pluralità. Codesti gradi stanno ai singoli oggetti, come le loro forme, o i loro modelli”. La volontà è dunque unica ma si esprime nel molteplice: “Come una lanterna magica fa apparire molte e diverse immagini, ma una sola è la fiamma, che quelle immagini rende visibili, così in tutti i molteplici fenomeni che o l’uno accanto all’altro riempiono il mondo, o l’un dopo l’altro s’incalzano in forma di avvenimenti, è nondimeno la volontà unica, che si disvela”. I tre fondamentali gradi ascendenti in cui la volontà si manifesta sono la natura inorganica, quella organica e l’essere umano; il passaggio da un grado all’altro avviene perché la volontà è una cieca e irrazionale tendenza che non riesce mai a soddisfarsi nelle diverse espressioni fenomeniche.
Il processo di obiettivazione della volontà nei vari gradi ascendenti è caratterizzato da una lotta incessante: il mondo animale si ciba di quello vegetale, alcuni animali si nutrono di altri, l’uomo infine vede nel resto del mondo nient’altro che l’oggetto del proprio dominio. Ma il pessimismo di Schopenhauer non trae origine soltanto dalla constatazione di questa lotta onnipresente, ma anche, più radicalmente, dalla concezione della volontà come tendenza mai soddisfatta all’autoaffermazione. La vita è un’altalena fra dolore (desiderio inappagato) e noia (desiderio appagato). Da un lato, infatti, la volontà consiste nel desiderare, e il desiderio comporta la mancanza di ciò che si desidera, quindi uno stato di dolore; d’altra parte, però, una completa soddisfazione del desiderio equivarrebbe a una condizione di noia, che è persino peggiore del dolore stesso. “Felici ancora, se qualche cosa rimane al nostro desiderio ed alla nostra aspirazione, per alimentare il giuoco del perenne passaggio dal desiderio all’appagamento, e da questo ad un nuovo desiderio [...], invece di cadere in quella paralisi, che si rivela come orribile, stagnante noia”. Una possibile via per uscire da questa terribile alternanza di dolore e noia è costituita dall’arte; la conoscenza estetica, infatti, non afferra l’oggetto singolo ma direttamente l’idea mediante un’intuizione. Le varie arti sono classificabili secondo una gerarchia che, attraverso l’architettura, la scultura, la pittura e la poesia, raggiunge il suo vertice con la musica: quest’ultima prescinde dalla raffigurazione ed è diretta oggettivazione della volontà.
Con l’intuizione artistica, peraltro, si raggiunge una liberazione solo temporanea: per superare in maniera stabile l’altalena di dolore e noia bisogna andare al di là della contemplazione estetica, e giungere fino a sopprimere in se stessi la volontà di vivere. Questa soppressione può avvenire attraverso una serie di tappe, la prima delle quali consiste nella giustizia, intesa come superamento dell’egoismo. La seconda tappa è poi la compassione, che vuol dire appunto “patire insieme”, ossia renderci conto dell’uguale destino di dolore che tutti ci accomuna. Ma la compassione comporta ancora sofferenza: l’unico modo per liberarsi completamente della volontà di vivere è l’ascesi, che si raggiunge abbracciando il dolore dell’intero universo e raccogliendosi in uno spazio mistico di quiete mediante la negazione della volontà. “Quel che rimane dopo la soppressione completa della volontà è invero, per tutti coloro che della volontà ancora sono pieni, il nulla. Ma per gli altri, in cui la volontà si è rivolta da se stessa e rinnegata, questo nostro universo tanto reale, con tutti i suoi soli e le sue vie lattee, è esso il nulla”.
Oltre che sulla filosofia di Nietzsche e sulla psicanalisi di Freud, la filosofia schopenhaueriana ha avuto una profonda influenza anche sulla musica di Wagner e sul romanzo dell’Ottocento e del primo Novecento, da Tolstoj a Zola, da Kafka a Thomas Mann: e lo stesso Mann è anche autore di un importante saggio dedicato a Schopenhauer.

© Giovanni Scattone 2011

sabato 26 marzo 2011

La letteratura della Resistenza

Si tratta di una letteratura nata dalla lotta clandestina contro il nazifascismo: comprende in senso stretto brevi scritti diffusi sui giornali con fini di propaganda, ciclostilati delle brigate (come, in Italia, “Il partigiano”, “Il fuorilegge”, ecc.) e le Lettere di condannati a morte della resistenza italiana (1952).
In senso lato vi vanno inclusi anche i diari di esuli, prigionieri e perseguitati, le rievocazioni di episodi partigiani, ecc. La distinzione fra letteratura della Resistenza e letteratura sulla Resistenza, al centro di un vivace dibattito negli anni ’50, ha perso oggi gran parte del suo interesse.
Comunque, il fatto nuovo della letteratura della Resistenza è la riscoperta del “pathos” della storia e della cronaca. Per quanto riguarda specificamente l’Italia, G.Pintor, giovane intellettuale caduto partigiano a 24 anni, ha lasciato negli scritti raccolti in Il sangue d’Europa una testimonianza sul travaglio morale della generazione formatasi durante il fascismo.
Tra i poeti che tentarono la lirica partigiana ricordiamo Montale, Ungaretti e Quasimodo. Nei giornali clandestini nacque il “racconto partigiano” (vi contribuirono, fra gli altri, Vittorini e Calvino): questi racconti, basati su una contrapposizione fra il partigiano buono e il fascista cattivo, hanno dialoghi secchi (influenzati da Hemingway e Steinbeck).
La letteratura resistenziale del dopoguerra avrà il suo classico nell’Agnese va a morire (1949) di Renata Viganò, cui seguirono molti altri fino a La ragazza di Bube (1960) di Carlo Cassola e Il giardino dei Finzi-Contini (1962) di Giorgio Bassani. Ma le opere più interessanti risalgono agli anni ’40: Uomini e no (1945) di Elio Vittorini, Il sentiero dei nidi di ragno (1947) di Italo Calvino, La casa in collina (1949) di Cesare Pavese, le opere di Beppe Fenoglio (I 23 giorni della città di Alba, La malora, Il partigiano Johnny).
A parte va considerata la memorialistica, da Cristo si è fermato a Eboli (1945) di Carlo Levi a Se questo è un uomo (1947) di Primo Levi.

© Giovanni Scattone 2011

giovedì 24 marzo 2011

Kierkegaard


Soren Aabye Kierkegaard (1813-1855) nacque a Copenaghen, dove si laureò nel 1841 con una tesi dal titolo Il concetto di ironia con particolare riferimento a Socrate. Si fidanzò con Regina Olsen ma decise in seguito di rompere il fidanzamento. A Berlino ebbe modo di ascoltare le lezioni di Schelling; gli ultimi anni di vita li trascorse a Copenaghen, dove entrò in polemica con la chiesa luterana danese. Le sue opere principali sono Aut-Aut, Timore e tremore, Il concetto di angoscia, Briciole di filosofia, La malattia mortale.
Kierkegaard pone in primo piano l’esistenza del singolo come individualità unica e originale; condizione caratteristica di tale esistenza è la possibilità, che comporta libertà ma anche angoscia di fronte alle infinite scelte possibili, oppure alla mancanza di possibilità. Scegliere una delle possibili linee di azione significa per il singolo escludere tutte le infinite linee di azione alternative. Inoltre, la possibilità è sempre rischio, perché può anche non realizzarsi: non vi è solo la “possibilità che sì”, ma vi è anche la “possibilità che non”. All’hegeliana conciliazione dialettica degli opposti (et-et) Kierkegaard contrappone l’alternativa fra possibilità di scelta che fra loro si escludono (aut-aut). Contrariamente a Hegel, non c’è più in primo piano l’unità del tutto ma il dramma della singolarità e della possibilità; non il progresso necessario ma scelte che reciprocamente si escludono; non la realtà razionale ma l’esistenza paradossale.
Alla base dell’individuo vi è dunque una scelta libera e non giustificabile razionalmente, e l’esistenza individuale può svolgersi secondo diverse forme o “stadi”: essi non seguono l’uno all’altro con un passaggio necessario, ma sono il frutto di una libera scelta, che determina l’eventuale ‘salto’ da uno stadio all’altro. Tre sono gli stadi fondamentali dell’esistenza: a) quello estetico; b) quello etico; c) quello religioso.
a) Lo stadio estetico è la forma di vita caratteristica di chi decide di vivere attimo per attimo, alla giornata, senza un programma di impegno a lunga scadenza; la vita estetica è esemplificata dalla figura del seduttore, che ne riassume i caratteri di discontinuità, dispersione e immediatezza. La vita propria dello stadio estetico non può però che sfociare nella noia e nella disperazione: di qui l’esigenza di passare a una forma di vita alternativa, rappresentata dallo stadio etico. b) Questo secondo stadio è esemplificato dalla figura del marito: egli vive la “ripetizione”, ossia l’impegno a riconfermare costantemente il passato, accettando ogni volta in modo nuovo di amare la stessa donna, di frequentare gli stessi amici, di svolgere il proprio ruolo nella società. c) Al secondo, che è quello etico o del dovere, si contrappone un terzo e più elevato stadio, quello religioso, caratterizzato dall’irruzione del divino nella vita dell’uomo. Questa irruzione è rappresentata in maniera vivida nella figura di Abramo, a cui Dio chiede di uccidere il figlio Isacco e quindi di disobbedire alle ingiunzioni della morale. In Abramo il contrasto fra principio etico, che impone di non sacrificare il figlio, e principio religioso, che richiede l’obbedienza incondizionata a Dio, è completo: Abramo sceglie l’abbandono irrazionale a Dio e in virtù di ciò suo figlio viene salvato. “La fede è un paradosso capace di trasformare l’omicidio del figlio in un’azione sacra e gradita a Dio, il paradosso che restituisce Isacco ad Abramo e di cui nessun pensiero può impadronirsi, poiché la fede comincia appunto là dove il pensiero finisce”.
Contrariamente all’eroe tragico, esemplificato da Agamennone che sacrifica la figlia Ifigenia ma ha il sostegno di tutto il popolo greco, l’eroe religioso come Abramo deve infrangere le leggi morali e giuridiche della sua gente e accettare il paradosso della fede. La fede in Dio è infatti paradossale, sia perché di Dio non si può dimostrare razionalmente l’esistenza, sia perché l’uomo può dare un valore alla propria finitezza solo abbandonandosi all’infinito: dinanzi all’incertezza dell’esistenza basata sul possibile, l’uomo si richiama con la fede al principio di ogni possibilità, a Dio che tutto può.
La storia non è, come per Hegel, lo svolgersi di uno sviluppo razionalmente necessario, ma il campo d’azione del possibile. Un evento storico è l’imprevedibile realizzarsi di una possibilità, e lo strumento che ci consente di conoscere la storia non è la ragione ma, in un certo senso, la fede: la ricostruzione storica comporta infatti la fiducia nell’attendibilità di documenti e testimonianze.
La vertigine che coglie l’uomo di fronte alla possibilità è il sentimento dell’angoscia: a differenza del timore, che riguarda qualcosa di specifico, l’angoscia non si riferisce a niente di preciso ed è in generale il disagio di fronte alla possibilità e al rischio della scelta. La disperazione, invece, riguarda il rapporto dell’uomo con se stesso: se infatti il singolo sceglie di essere se stesso si riconosce come limitato e imperfetto, e se d’altra parte decide di non essere se stesso si ritrova in una situazione di insostenibile scissione. La filosofia di Kierkegaard, incentrata sulla concretezza dell’esistenza individuale, sulla paradossalità della fede, sui concetti di angoscia e disperazione, sulla difficoltà della scelta, ha esercitato una profonda influenza sulla filosofia e sulla teologia del Novecento: si pensi ad esempio all’esistenzialismo o alla teologia dialettica di K.Barth.

© Giovanni Scattone 2011

mercoledì 23 marzo 2011

Il destino dei Romanov

Quando la rivoluzione del febbraio 1917 li destituì, i Romanov regnavano sulla Russia da tre secoli. La prima guerra mondiale si risolse in un disastro per la Russia. Nel marzo 1917 si era sull’orlo del tracollo e a Pietrogrado operai, studenti e militari protestavano in piazza. Lo zar Nicola II decise allora di rinunciare al trono. Il governo provvisorio di Kerenskij mise l’intera famiglia imperiale agli arresti domiciliari nella villa di campagna a Tzarskoe Selo: lo zar Nicola II, la zarina Alessandra, l’erede al trono dodicenne (il malaticcio Alessio, emofiliaco) e le quattro figlie di età compresa fra i 22 e i 16 anni (Olga, Tatiana, Maria e Anastasia). Lo zar, costantemente sorvegliato, si dedicò agli intarsi in legno, alla pesca e al giardinaggio. Dal 1907 la famiglia dello zar era stata molto influenzata dal monaco Rasputin (individuo sinistro e presunto taumaturgo), che fu però ucciso da alcuni nobili nel 1916.
Kerenskij nell’estate del 1917 decise di esiliare in Siberia l’intera famiglia reale, perché da un lato i bolscevichi volevano uccidere lo zar e dall’altro i monarchici tramavano per riportarlo sul trono. Nel novembre 1917 i bolscevichi prevalsero e la Russia si ritirò dalla guerra. Nell’aprile 1918 Lenin decise di trasferire la famiglia imperiale in una casa di Ekaterinburg, controllata a vista da alcuni soldati bolscevichi. L’ex zar aveva ormai cinquant’anni, mentre il tredicenne Alessio era sempre più malato. Intanto i “bianchi” filomonarchici, appoggiati da 40.000 soldati cechi, avanzavano verso Ekaterinburg: pertanto il 16 luglio 1918 le guardie bolsceviche (comandate da Yakov Yurovskij) decisero di sterminare la famiglia imperiale e di bruciarne i corpi. Questa almeno è la versione ufficiale dei fatti.
Nel 1919 il filomonarchico Sokolov condusse un’inchiesta che approdò alla conclusione secondo cui l’intera famiglia imperiale era stata uccisa la sera del 16 luglio 1918, ma altri sostennero che solo l’ex zar era stato eliminato, mentre i suoi familiari erano stati risparmiati (questa era ad esempio la convinzione di sir Charles Eliot, console inglese in Siberia). Ad ogni modo, le molte persone che dichiararono in seguito di essere dei Romanov scampati al massacro furono smascherati come impostori. [Ad esempio il 17 febbraio 1920 una donna salvata da un poliziotto mentre stava affogando in un canale a Berlino disse di essere Anastasia scampata alla strage. In realtà si chiamava Anna Anderson, ma alcuni parenti dello zar la riconobbero come Anastasia.]
Nel dicembre 1918 spuntò un’infermiera, tale Natalia Mutnich, che dichiarava di aver visitato personalmente la zarina Alessandra e le sue quattro figlie, che sarebbero pertanto sopravvissute allo zar. Infine, nel periodo di Gorbaciov alla fine degli anni Ottanta, furono svolte nuove indagini. Nell’estate del 1991, in una fossa presso Ekaterinburg, furono ritrovati nove scheletri: dopo approfondite analisi, tali resti sono stati identificati con quelli dello zar Nicola II, della moglie, del loro medico personale, delle tre figlie maggiori e di tre domestici. La mancanza dei resti attribuibili ad Anastasia e ad Alessio lascia però aperti molti interrogativi.

© Giovanni Scattone 2011

Marx

Karl Marx (1818-1883) nacque a Treviri in una famiglia ebrea: il padre era un avvocato convertitosi al luteranesimo. Dopo aver studiato filosofia e diritto nelle università di Bonn e di Berlino, Marx si laureò con una tesi sulla Differenza tra la filosofia della natura di Democrito e quella di Epicuro. Entrò in contatto con alcuni esponenti della Sinistra hegeliana e nel 1844 a Parigi conobbe Friedrich Engels (1820-1895), con cui collaborò strettamente per il resto della vita. Aderì alla Lega dei comunisti fin dalla fondazione (1847) e l’anno seguente scrisse con Engels il Manifesto del partito comunista. A causa delle sue idee rivoluzionarie, nel 1849 venne espulso dalla Germania e dovette trasferirsi a Londra con la famiglia (nel 1843 aveva sposato Jenny von Westphalen, da cui ebbe sei figli). Nell’esilio inglese scrisse la sua opera maggiore, Il capitale. Con la fondazione della Prima Internazionale nel 1864, riprese un ruolo attivo all’interno del movimento comunista. Visse gli ultimi anni in ristrettezze economiche, morendo nel 1883 dopo una lunga malattia. Fra gli altri suoi scritti, ricordiamo i Manoscritti economico-filosofici del 1844, l’Ideologia tedesca e Per la critica dell’economia politica.
Partendo da un esame critico della filosofia hegeliana e dell’economia classica inglese, Marx sviluppa già nelle opere giovanili un’originale analisi del capitalismo moderno. Innanzitutto, egli sostiene che l’economia politica del suo tempo ha il grave difetto di presentare come leggi economiche valide sempre e dovunque quelle che sono in realtà forme produttive legate a una società e a un particolare momento storico. Inoltre, il modo di produzione capitalistico provoca il fenomeno dell’alienazione, consistente nel fatto che l’operaio non realizza se stesso nel lavoro, ma vende la propria attività lavorativa come una merce per sopravvivere, rendendosi così schiavo del suo prodotto: “Divenendo universali la divisione del lavoro e l’impiego delle macchine, il lavoro dei proletari ha perduto ogni carattere d’indipendenza e quindi ogni attrattiva per l’operaio. Questi diviene un mero accessorio della macchina, cui non è richiesta che un’applicazione tra le più semplici e monotone, assai facile ad imparare”. Nel sistema capitalistico, dunque, ciò che il lavoro produce non appartiene al lavoratore: appartiene al capitalista, proprietario degli strumenti di produzione e sfruttatore dei salariati. La dialettica hegeliana è ripensata da Marx nei termini seguenti: la negazione del valore dell’uomo, dovuta allo sfruttamento, va rovesciata attraverso una “negazione della negazione” che porti a un radicale mutamento dell’assetto sociale. Nell’Ideologia tedesca Marx critica gli hegeliani e Feuerbach: se Hegel è un conservatore che difende la situazione presente considerandola espressione di una superiore razionalità, anche la Sinistra hegeliana continua a credere che la critica delle idee attraverso le idee possa cambiare la realtà. Invece l’unico modo per cambiare le cose è rendersi conto che gli uomini sopravvivono mediante rapporti di lavoro: l’economia rappresenta la struttura fondamentale da cui dipendono la religione, la filosofia e il diritto, che costituiscono la sovrastruttura di un dato periodo storico (è questa la cosiddetta “concezione materialistica della storia”). Solo intervenendo sulla struttura economica è possibile dunque eliminare lo sfruttamento, e la filosofia non deve restare pura astrazione, ma deve intervenire sul terreno della prassi: “I filosofi hanno finora soltanto diversamente interpretato il mondo: si tratta ora di trasformarlo”.
Nel corso dello sviluppo storico, si sono susseguite secondo Marx diverse forme di organizzazione proprietaria: “La prima forma di proprietà è quella tribale. Essa corrisponde a quel grado non ancora sviluppato della produzione in cui un popolo vive di caccia e di pesca, dell’allevamento del bestiame o al massimo dell’agricoltura [...]. La seconda forma è la proprietà della comunità antica [...] che ha origine dall’unione di più tribù in una città [...]. La terza forma è la proprietà feudale o degli ordini [...]. L’organizzazione gerarchica del possesso fondiario e le relative compagnie armate davano alla nobiltà il potere sui servi della gleba”. A queste prime tre forme di proprietà fa seguito l’avvento del capitalismo e la conseguente ripartizione ineguale del lavoro e dei suoi prodotti. Con il termine di borghesia Marx si riferisce alla classe dei moderni capitalisti, proprietari dei mezzi di produzione e datori di lavoro salariato; con quello di proletariato intende invece la classe di quanti, “non possedendo mezzi di produzione propri, si trovano costretti, per vivere, a vendere la loro forza lavorativa”. Questi ultimi potranno liberarsi dalla condizione infelice di asservimento in cui si trovano se uniranno le loro forze per abbattere il dominio della borghesia, conquistare il potere politico e dar vita a un’organizzazione collettiva della produzione; da qui l’invito con cui si conclude il Manifesto: “Proletari di tutti i paesi, unitevi!”.
La storia di tutte le società è stata sempre, secondo Marx, una storia di lotte fra classi; in ciascun periodo storico la cultura della classe al potere è stata anche la cultura dominante. Ciò che determina lo svolgersi della storia è infatti, ancora una volta, la struttura economica: “Nella produzione sociale della loro esistenza, gli uomini entrano in rapporti determinati, necessari, indipendenti dalla loro volontà, in rapporti di produzione che corrispondono a un determinato grado di sviluppo delle loro forze produttive materiali [...]. Il modo di produzione della vita materiale condiziona, in generale, il processo sociale, politico e spirituale della vita. Non è la coscienza degli uomini che determina il loro essere ma è, al contrario, il loro essere sociale che determina la loro coscienza. A un dato punto del loro sviluppo, le forze produttive materiali della società entrano in conflitto con [...] i rapporti di proprietà [...]. Da forme di sviluppo delle forze produttive, questi rapporti si convertono in loro catene: si apre allora un’epoca di rivoluzione sociale”.
Per capire il perché di questa complessa dinamica, che porta infine all’abbattimento del capitalismo mediante la rivoluzione proletaria, occorre un’approfondita analisi economica che metta in evidenza le contraddizioni interne al sistema capitalistico: tale analisi è tentata da Marx nella sua opera più famosa, Il capitale. Qui egli distingue fra il valore d’uso di una merce, che è la sua capacità di soddisfare determinati bisogni degli uomini, e il valore di scambio, che rappresenta il valore sul mercato ed è espresso dal prezzo di una data merce. A questa distinzione, che Marx riprende da Smith e Ricardo, si collega la teoria del plusvalore, che spiega l’origine del profitto capitalistico. La forza-lavoro dell’operaio viene infatti venduta e acquistata come una qualsiasi altra merce, e il suo prezzo è rappresentato dal salario ricevuto dal lavoratore. Ma “il tempo di lavoro necessario a un operaio per produrre un valore uguale a quello che riceve sotto forma di salario è inferiore alla durata effettiva del suo lavoro. L’operaio produce, per esempio, in cinque ore un valore uguale a quello che è contenuto nel suo salario, ma in realtà lavora dieci ore. Egli lavora dunque la metà del tempo per sé e l’altra metà per l’imprenditore”. Il plusvalore è appunto quel valore aggiuntivo che l’operaio produce nelle ore di lavoro in più rispetto al tempo che sarebbe sufficiente per produrre un valore pari al salario ricevuto: di questo plusvalore, corrispondente a una quota di lavoro non pagato, si appropria il capitalista, e in ciò consiste lo sfruttamento. Quest’ultimo è destinato ad aumentare, perché la storia del capitalismo moderno è segnata dal continuo aumento dell’orario lavorativo, dal crescente utilizzo di lavoratori sottopagati (donne e bambini) e dall’uso sempre più massiccio di macchinari. La meccanizzazione del lavoro provoca al tempo stesso la disoccupazione (in quanto le macchine sostituiscono l’attività umana), un progressivo abbassamento dei salari legato all’eccesso di manodopera e, in ultima analisi, una crisi di sottoconsumo dovuta all’insufficiente potere di acquisto dei salariati. Infine, il capitalista è costretto per reggere la concorrenza a investire quote sempre maggiori del suo denaro nei macchinari (o “capitale costante”); ma poiché il plusvalore si origina solo dallo sfruttamento dei salariati (cioè dal “capitale variabile”), consegue da tutto ciò un’irreversibile diminuzione dei profitti (caduta tendenziale del saggio di profitto) che segna la crisi inevitabile dell’intero sistema capitalistico. Lo sbocco di questa crisi è una rivoluzione che conduce dapprima a una dittatura del proletariato e infine alla generale pacificazione in una società senza proprietà privata e senza classi.
Il capitale è rimasto incompiuto: vivente Marx, fu pubblicato soltanto il primo volume (1867), mentre il secondo e il terzo furono editi a cura di Engels, che si avvalse anche di copiosi manoscritti di Marx. Molto si è discusso sull’importanza del contributo e dell’influenza di Engels sull’insieme dell’opera marxiana; sta di fatto che in alcune opere pubblicate dopo la morte di Marx, fra cui la Dialettica della natura, Engels sviluppò una filosofia autonoma, tentando di applicare alcune categorie del materialismo storico anche al mondo naturale. Per quanto riguarda invece le interpretazioni novecentesche del pensiero di Marx, esse si intrecciano con le varie correnti neomarxiste, da Lenin fino alla Scuola di Francoforte.

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Giolitti

Giovanni Giolitti nacque a Mondovì e fu soprannominato “l’uomo di Dronero” perché lì si trovava il cuore del suo collegio elettorale. Entrato nel 1862 nell’amministrazione statale e percorsavi una rapida carriera, fu nominato Consigliere di stato nel 1882 ed eletto alla Camera come deputato di Cuneo. E’chiamata età giolittiana (1901-13) quella fase della storia italiana dominata appunto dalla figura di Giolitti, prima ministro dell’interno nel governo Zanardelli e poi primo ministro quasi ininterrottamente fino alla vigilia della prima guerra mondiale. In quegli anni furono superate le tendenze autoritarie dei governi Crispi e Pelloux di fine secolo: il governo Giolitti fu riformista ed ebbe spesso l’appoggio esterno del partito socialista. Giolitti era un liberaldemocratico che riconosceva il diritto di sciopero, il ruolo dei sindacati e delle cooperative. La legislazione sociale fu ampliata con il riconoscimento dell’assicurazione obbligatoria per gli infortuni, con la proibizione del lavoro notturno delle donne e con la decisione che l’età minima per il lavoro dei ragazzi era 12 anni. Le scuole elementari furono finanziate dallo stato, che si modernizzò anche con la statalizzazione del servizio telefonico (1903) e delle ferrovie (1905). Nel 1912 fu stabilito il suffragio universale maschile, che coinvolse il 24% della popolazione totale. Vi fu una crescita industriale (siderurgia, industrie chimiche, meccaniche e idroelettriche). La crescita dell’industria, sostenuta da dazi doganali, si concentrò nell’area nord-occidentale (triangolo industriale). Il meridione restò abbandonato a se stesso e vi prevalse ancora il latifondo, nonostante le leggi per l’industrializzazione di Napoli e della Basilicata, o la costruzione dell’acquedotto pugliese. Aumentarono gli impiegati pubblici, mentre nascevano associazioni sia di operai (CGL) che di imprenditori (Confindustria, 1910).
Nel 1904 vi fu uno sciopero generale e nel 1907 una crisi economica legata a una sfavorevole congiuntura internazionale. Nel 1912 Giolitti si appoggiò ai cattolici per contrastare l’avanzata delle sinistre (Patto Gentiloni, con cui i cattolici sostenevano i liberali non anticlericali). Difensore dell’impresa di Libia (1911-12), fu neutralista nella prima guerra mondiale e, divenuto nuovamente primo ministro fra il giugno 1920 e il giugno 1921, adottò un atteggiamento tollerante verso il fascismo.

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martedì 22 marzo 2011

La seconda guerra mondiale

I tre paesi a regime dittatoriale totalitario di destra – Giappone, Italia e soprattutto Germania – riportarono successi diplomatici e militari. La politica internazionale dell’Italia portò Mussolini a legarsi con Hitler (asse Roma-Berlino, 1936). L’estensione all’Italia delle misure razziste costò al regime fascista la perdita di molti consensi.
Nel marzo 1938 Hitler operò l’annessione (Anschluss) dell’Austria al Terzo Reich. Nella conferenza di Monaco (settembre 1938) tra Hitler, Mussolini, Daladier e Chamberlain fu stabilito che i Sudeti (parte della Cecoslovacchia) passassero al Reich. L’Italia nel 1939 (aprile) occupò l’Albania e il 22-5-1939 Mussolini e Hitler firmarono un’alleanza militare difensiva e offensiva (patto d’acciaio). Infine, la Germania firmò un patto di non aggressione con la Russia sovietica (patto Ribbentrop-Molotov, 23-8-1939).
L’invasione tedesca della Polonia (1-9-1939) aprì il secondo conflitto mondiale. La Polonia fu conquistata in 20 giorni, come pure Danimarca e Norvegia. I tedeschi invasero Lussemburgo, Olanda e Belgio, aggirando l’inutile linea Maginot francese. Mentre gli inglesi si ritiravano salpando da Dunkerque, i francesi comandati da Pétain (e sconfitti sulla Somme) si arresero a Hitler: ma il giovane generale De Gaulle cercò di organizzare la resistenza. L’Italia entrò in guerra (10-6-1940) al fianco della Germania, ma l’Inghilterra non cedette (battaglia aerea d’Inghilterra, agosto-settembre 1940). Il 27-9-1940 Germania, Giappone e Italia firmarono un patto tripartito, cui aderirono anche Ungheria, Slovacchia e Romania. Nell’ottobre 1940 Mussolini attaccò la Grecia, ma gli italiani furono sconfitti.
Gli Stati Uniti, formalmente neutrali, aiutarono militarmente gli inglesi con la legge “affitti e prestiti” (“Carta atlantica” firmata da Roosevelt e Churchill). La Germania inviò in Libia un corpo corazzato germanico guidato dal generale Rommel (Afrika Korps), mentre i tedeschi occupavano anche Grecia e Jugoslavia. Infine Hitler decise di attaccare a sorpresa anche la Russia. Intorno a Stalingrado si combatté accanitamente per tutto il 1942.
Intanto il Giappone aveva distrutto proditoriamente la flotta americana di stanza a Pearl Harbor nelle Hawaii (7-12-1941) e la temporanea superiorità navale e aerea consentì ai giapponesi di dilagare nel sud-est asiatico. Ma la macchina da guerra statunitense cominciò a funzionare a pieno regime e gli effetti si sentirono anche in Europa. In Africa il generale Montgomery sconfisse gli italo-tedeschi; la battaglia di Stalingrado si risolse a favore dei russi; e  nel Pacifico gli americani prevalsero sui giapponesi nella battaglia delle Midway (giugno 1942). Le cose cominciarono a mettersi male per le potenze del patto tripartito.
La persecuzione degli ebrei e il crudele trattamento dei prigionieri incentivarono in Europa un movimento di resistenza antinazista. Decisiva fu poi l’alleanza fra l’URSS di Stalin e le democrazie occidentali. In Jugoslavia le formazioni comuniste di Tito combatterono duramente contro i tedeschi; anche in Norvegia, Belgio e Olanda vi fu una lotta partigiana. Nel 1944 alcuni ufficiali tedeschi tentarono di eliminare Hitler, ma l’attentato fallì (20-7-1944).
Nella conferenza di Casablanca (1943) Roosevelt e Churchill stabilirono di proseguire la guerra fino a una completa resa tedesca. Da Stalingrado tedeschi e italiani cominciarono una disastrosa ritirata, mentre nel luglio 1943 le truppe angloamericane sbarcavano in Sicilia. Il 25 luglio 1943 Mussolini fu deposto e arrestato: capo di un governo tecnico fu nominato Badoglio e si giunse all’armistizio dell’8-9-1943 con gli Alleati. Il re si rifugiò a Brindisi, mentre la Resistenza diveniva una guerra di popolo. Nel nord Italia Mussolini (liberato dai tedeschi) fu posto a capo della Repubblica di Salò.
Dopo lo sbarco ad Anzio, il fronte tedesco cedette e nel giugno 1944 Roma fu liberata. Al governo Badoglio succedette quello di Ivanoe Bonomi, con la partecipazione di De Gasperi (democristiani), Togliatti (comunisti), Nenni (socialisti) e Croce (liberali).
Il 6 giugno 1944 il generale americano Eisenhower coordinò lo sbarco in Normandia, con truppe aviotrasportate. Furono liberati Parigi, il Belgio e l’Olanda, mentre terribili bombardamenti colpivano le città tedesche. I sovietici invasero l’Ungheria, mentre i tedeschi reprimevano duramente una rivolta a Varsavia.
L’Italia settentrionale fu liberata il 25 aprile 1945 e Mussolini fu fucilato; intanto angloamericani e russi si congiungevano a Berlino, dove Hitler si era suicidato. Seguì la resa incondizionata dei tedeschi.
La nuova carta geografica d’Europa fu disegnata nelle conferenze di Yalta (febbraio 1945) e di Potsdam (agosto 1945). Gli americani intanto conquistavano le Filippine e, per accelerare la sconfitta giapponese, decisero di utilizzare (su ordine del nuovo presidente Truman) la bomba atomica a Hiroshima (6-8-1945) e a Nagasaki (9-8-1945). Anche il Giappone si arrese senza condizioni (settembre 1945).

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Neutralisti e interventisti in Italia

L’Italia entrò nel primo conflitto mondiale solo nel maggio del 1915, quando la guerra era già cominciata da 10 mesi, intervenendo a fianco dell’Intesa e contro gli imperi centrali. Fu una scelta sofferta, che spaccò politici e opinione pubblica fra “neutralisti” e “interventisti”.
Il 2 agosto 1914, appena scoppiata la guerra, il governo presieduto da Antonio Salandra aveva dichiarato la neutralità dell’Italia. Questa decisione era stata motivata dal carattere puramente difensivo della Triplice alleanza e dal fatto che l’Austria aveva agito contro la Serbia senza consultare gli italiani. La presenza di diffusi sentimenti antiaustriaci nell’opinione pubblica e il desiderio nazionalistico di completare il processo risorgimentale di unificazione (con la conquista di Trento e Trieste) portarono inoltre alla nascita di un movimento interventista antiaustriaco.
Gli interventisti. Interventisti furono innanzitutto i gruppi della sinistra democratica: i repubblicani di ispirazione garibaldina, i radicali di Bissolati (filofrancesi) e le associazioni irredentiste. A questi si aggiunsero, sorprendentemente, alcuni esponenti del movimento operaio: costoro speravano che un conflitto in Europa avrebbe portato con sé anche una rivoluzione socialista nei vari paesi. Fautori dell’intervento furono anche i nazionalisti di destra, che si unirono così ai democratici in uno schieramento trasversale. Più cauta fu la posizione del governo (dal primo ministro Antonio Salandra al ministro degli esteri Sidney Sonnino): una posizione condivisa anche dal principale quotidiano, il “Corriere della sera” di Luigi Albertini, di tendenze liberali moderate.
I neutralisti. L’ala più consistente dei liberali, che faceva capo a Giovanni Giolitti, aveva invece una posizione neutralista. Giolitti riteneva infatti che l’Italia non fosse preparata per il conflitto e pensava che avrebbe potuto comunque ricevere dagli imperi centrali un compenso territoriale come prezzo della neutralità. Contrario alla guerra era anche il papa Benedetto XV e, con lui, il mondo cattolico: oltretutto il papa non voleva che l’Italia si trovasse al fianco della Francia repubblicana e anticlericale contro la cattolica Austria-Ungheria. Prevalentemente contrari alla guerra furono inoltre i socialisti e la CGL. Interventista divenne però il socialista Mussolini, che nel 1914 fondò un nuovo quotidiano, “Il popolo d’Italia”, che si distinse nella campagna interventista.
I neutralisti erano inizialmente più numerosi, ma poco organizzati. Gli interventisti, invece, erano compattati dal desiderio di combattere contro l’Austria e di porre fine all’epoca giolittiana; inoltre gli interventisti appartenevano ai settori più dinamici della società, come studenti, impiegati, professionisti, piccoli borghesi in generale. Furono interventisti molti intellettuali: Giovanni Gentile, Gaetano Salvemini, Gabriele D’Annunzio (Benedetto Croce, invece, fu neutralista).
Ma ciò che decise l’esito dello scontro fra neutralisti e interventisti fu la posizione del re, del capo del governo e del ministro degli esteri: a loro spettava infatti, a norma dello Statuto, di prendere decisioni in campo internazionale. Costoro decisero di accettare le proposte dell’Intesa, firmando il 26-4-1915 il Patto di Londra con Francia, Inghilterra e Russia.
Il Parlamento italiano, in maggioranza neutralista, doveva però ancora ratificare la decisione: ma le numerose manifestazioni di piazza interventiste (nelle cosiddette “radiose giornate di maggio”) lo indussero a conferire i pieni poteri al governo. Così, il 23-5-1915, l’Italia dichiarò guerra all’Austria.

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La prima guerra mondiale

Nei primi anni del Novecento si era affermato un imperialismo colonialista, che aveva alimentato attriti fra le grandi potenze soprattutto in Africa e nei Balcani; c’era stata inoltre una crescita nella dotazione di armamenti delle principali nazioni europee (particolarmente in Germania). Alla vigilia della guerra il quadro delle alleanze vedeva da un lato l’Intesa (Russia, Francia e Gran Bretagna), dall’altro gli imperi centrali (Austria e Germania). L’Italia era formalmente vincolata agli imperi centrali mediante la Triplice alleanza (1882), ma aveva buoni rapporti anche con le liberaldemocrazie occidentali: oltretutto restava vivo in Italia un irredentismo antiaustriaco che puntava alla conquista di Trento e Trieste.
Così le idee belliciste, i nazionalismi esasperati, la propaganda, il riarmo e le spinte del grande capitale finanziario cooperarono a far precipitare i rapporti fra le grandi potenze. La scintilla occasionale che fece scoppiare il conflitto fu l’uccisione dell’arciduca Francesco Ferdinando da parte dei nazionalisti serbi a Sarajevo (il 28-6-1914). L’ultimatum austriaco alla Serbia e il conseguente attacco militare (23-28 luglio 1914) fecero scattare una serie di interventi a catena: la Russia mobilitò l’esercito in difesa della Serbia, inducendo la Germania a scendere in campo a fianco dell’Austria. I tedeschi dichiararono guerra alla Russia il 1 agosto e alla Francia il 3 agosto, mentre il 4 agosto la Gran Bretagna interveniva nel conflitto per la violazione della neutralità belga da parte della Germania.
Gli imperi centrali potevano contare sulle notevoli risorse dell’Europa continentale, ma Francia e Inghilterra (grandi potenze coloniali) erano più preparate a una guerra di logoramento, grazie ai rifornimenti asiatici e africani; potevano inoltre bloccare il flusso degli scambi via mare verso gli imperi centrali attraverso un ferreo blocco navale.
La Germania, ben preparata militarmente, sperava di chiudere la guerra in pochi mesi. I tedeschi invasero la Francia passando attraverso il Belgio: guidati dal generale von Moltke, furono però fermati sulla Marna (settembre 1914) dalle truppe francesi guidate da Joffre. Intanto, sul fronte orientale, i generali Hindenburg e Ludendorff inflissero ai russi due gravi sconfitte a Tannenberg e ai Laghi Masuri (settembre-ottobre 1914), penetrando così verso est.
La Turchia (1 novembre 1914) scese in campo a fianco degli imperi centrali (Germania e Austria-Ungheria), costringendo gli inglesi (con l’ausilio di australiani e neozelandesi) a una sfortunata incursione nella penisola di Gallipoli (febbraio 1915), con gravi perdite.
La Germania tentò di tagliar fuori gli inglesi dal conflitto ricacciandoli al di là della Manica, ma quelli resistettero nelle Fiandre, in particolare a Ypres (ottobre-novembre 1914). L’intervento in guerra dell’Italia (24-5-1915) a fianco dell’Intesa, rompendo la Triplice con il patto di Londra, impegnò l’Austria in un secondo fronte: fra la primavera e il dicembre alcune offensive sull’Isonzo guidate dal generale Cadorna furono però respinte dagli austriaci. La guerra divenne così guerra di logoramento: chilometri di trincee si snodavano in Francia, nella pianura polacca e russa, sulle Alpi venete e friulane.
Nei Balcani la Bulgaria si unì agli imperi centrali e la Serbia finì per capitolare, mentre sul fronte francese l’attacco tedesco a Verdun (febbraio-giugno 1916) si risolse in un’infruttuosa carneficina (circa 600.000 morti). All’Intesa si unirono nell’estate 1916 anche la Romania e il Giappone, mentre lo scontro navale anglo-tedesco nello Jutland si risolveva in un nulla di fatto. I costi colossali della guerra, soprattutto in termini di vite umane, portarono nel 1917 a un vasto movimento pacifista (con l’appoggio dei socialisti di vari paesi e del Vaticano) che organizzò manifestazioni in tutta Europa. Notevole fu anche il fenomeno della diserzione e della renitenza alla leva.
Nell’aprile 1917, reagendo alla guerra sottomarina scatenata dalla Germania, anche gli Stati Uniti entravano nel conflitto a fianco dell’Inghilterra. Intanto in Russia, a causa della rivoluzione, il fronte cedeva di schianto costringendo i russi alla resa (pace di Brest-Litovsk, 3 marzo 1918).
L’offensiva austriaca a Caporetto (24-10-1917) metteva in ginocchio gli italiani che, dopo una disastrosa ritirata, si attestavano sulla linea del Piave; ma in territorio francese i tedeschi furono sconfitti ad Amiens (11-8-1918), mentre gli inglesi avanzavano in Turchia.
Il collasso degli imperi centrali portò al disgregarsi dell’impero austro-ungarico; gli italiani, ora guidati dal generale Diaz, dilagarono a Vittorio Veneto (24-10-1918). Il 9 novembre un’insurrezione operaia a Berlino proclamava la repubblica, costringendo alla fuga Guglielmo II: l’11-11-1918 una delegazione tedesca firmava l’armistizio di Rethondes. Intanto l’impero austro-ungarico si era dissolto (l’Austria divenne una repubblica) e cedette Trentino e Friuli all’Italia.
La prima guerra mondiale provocò 10 milioni di morti, con la distruzione di intere regioni e la perdita di grandi risorse. La pace fu stipulata a Versailles il 18 gennaio 1919.

© Giovanni Scattone 2011

lunedì 21 marzo 2011

La guerra di Libia

Nel 1907 i francesi avevano occupato Casablanca, in Marocco. Nell’aprile 1911 una rivolta contro il sultano del Marocco servì da pretesto alla Francia per un nuovo intervento, che portò all’occupazione di Fez. La Germania, che aveva anch’essa mire sul Marocco, inviò l’incrociatore Panther provocando una crisi diplomatica tra francesi e tedeschi. L’Italia, riavvicinatasi alla Francia dopo la guerra doganale, decise di intervenire in Libia, soprattutto per la pressione di gruppi finanziari e capitalistici, appoggiati da una propaganda che insisteva sul nazionalismo e sull’esigenza di riscatto coloniale dopo la disfatta di Adua. Il primo ministro Giolitti fu così sollecitato soprattutto dal Banco di Roma che, fra il 1906 e il 1910 aveva attuato un notevole aumento di capitali e intendeva ora esportarne in Libia.
Vari intellettuali e politici si schierarono pubblicamente a favore dell’intervento e vari giornali (fra cui La stampa e il Corriere della sera, forte di ben 200.000 copie) presentarono la Libia come una terra promessa e la guerra come una crociata contro gli infedeli. Anche poeti come Gabriele D’Annunzio celebrarono l’esigenza di intervenire militarmente (e lo stesso fecero Pascoli e Corradini). Le motivazioni ideologiche a favore dell’intervento erano quindi: 1) l’Italia che fino allora esportava forza lavoro dequalificata e a basso prezzo, finalmente poteva trovare una terra promessa; 2) la Libia era già italiana, in quanto un tempo era stata romana; 3) non bisognava essere da meno delle altre potenze europee.
Gli oppositori alla campagna libica furono parte dei socialisti e dei cattolici: costoro insistevano sulle scarse ricchezze della Libia e sui rischi dell’impresa. Fra i contrari alla guerra si distinsero il socialista Turati, il repubblicano Nenni e il socialista rivoluzionario Mussolini: gli ultimi due furono anche arrestati e condannati a un anno di carcere.
La guerra di Libia fu combattuta sostanzialmente contro i turchi. Il 24 settembre 1911 Vittorio Emanuele III aveva autorizzato Giolitti a mandare un ultimatum alla Turchia chiedendo l’autorizzazione a occupare la Libia. La risposta negativa dei turchi provocò la dichiarazione di guerra (29 settembre). Entrò dapprima in azione la marina italiana, poi un contingente che passò gradualmente da 30.000 a 100.000 uomini. Infine fu usata anche l’aviazione (aerei e dirigibili).
L’esercito italiano non era ben preparato e subì perdite a causa di incursioni da parte dei gruppi irregolari arabi: le repressioni da parte dell’esercito italiano furono spesso crudeli. In generale i libici preferivano la protezione turca e non simpatizzarono con gli invasori italiani: ne conseguì una logorante guerriglia. Intanto però la marina italiana riportava alcune vittorie contro i turchi nell’Egeo e ai Dardanelli.
Con la pace di Losanna si ebbe un accordo italo-turco (ottobre 1912): l’Italia ottenne la Libia e si impossessò anche del Dodecaneso e di Rodi. Ma in Cirenaica rimasero truppe turche e in Libia la guerriglia proseguì anche negli anni seguenti.
La guerra di Libia costò all’Italia 3400 morti e 4200 feriti.

© Giovanni Scattone 2011

venerdì 18 marzo 2011

La repubblica di Weimar

Dopo la sconfitta nella prima guerra mondiale, il Kaiser Guglielmo II fu costretto all’abdicazione. Subito dopo, il 9-11-1918, in Germania fu proclamata la repubblica e venne istituito un governo provvisorio guidato dai socialdemocratici. Intanto il successo della rivoluzione russa aveva acceso anche in Germania nuove speranze e nuovi timori, anche se la situazione sociale era diversa: mentre in Russia i contadini appoggiavano i progetti rivoluzionari operai, in Germania i contadini erano piccoli proprietari che non avevano granché da guadagnare da una rivoluzione. In Germania si verificò una frattura tra socialisti moderati e rivoluzionari. La minoranza socialista di sinistra, che si era opposta alla guerra, era uscita dal partito socialdemocratico fin dal 1916 e aveva fondato la Lega di Spartaco, diretta da Karl Liebknecht e Rosa Luxemburg. Il 1 gennaio 1919 la Lega di Spartaco si trasformò nel Partito comunista tedesco: la Luxemburg credeva nella “democrazia rivoluzionaria” e pensava a forme di autogestione operaia (anziché a una dittatura di partito, come i bolscevichi di Russia).
Nel gennaio 1919 il Partito comunista tedesco guidò un tentativo di rivoluzione a Berlino, ma durante una feroce “settimana di sangue” (4-13 gennaio 1919) la rivoluzione fu soffocata. Liebknecht e Luxemburg furono uccisi da corpi paramilitari di destra, i cosiddetti “corpi franchi”. Il potere rimase così ai socialdemocratici.
Nel febbraio 1919 si riunì a Weimar un’Assemblea costituente che in pochi mesi elaborò una costituzione democratica. La Germania diventava una repubblica federale dove il cancelliere rispondeva al Parlamento (Reichstag), che aveva il potere legislativo. C’era poi un presidente con ampi poteri, eletto direttamente dal popolo: il presidente era a capo dell’esecutivo e, in circostanze particolari, poteva legiferare direttamente per mezzo di decreti, aggirando il Parlamento. A queste ambiguità costituzionali si aggiunsero nella repubblica di Weimar i problemi sociali: infatti militari, industriali, banchieri, uomini politici, nobili, magistrati e proprietari terrieri formavano un blocco che controllava di fatto la repubblica e non si rassegnava alle regole della democrazia.
Gravi tensioni sociali si erano manifestate già verso la fine del primo conflitto mondiale, con l’ondata di scioperi dell’autunno 1918. Nel 1922 milizie dell’estrema destra nazionalista uccisero il ministro degli esteri Walter Rathenau, intellettuale e industriale ebreo che aveva organizzato l’economia nazionale durante la guerra.
Il problema dei debiti di guerra portò all’occupazione, da parte della Francia, della Ruhr (1923), un’area industriale ricca di miniere di carbone. Tale occupazione e la reazione del governo tedesco, che proclamò la resistenza passiva e lo sciopero generale, causarono danni ulteriori alla già zoppicante economia tedesca. L’inflazione, che aveva colpito la Germania dalla fine della guerra, raggiunse proporzioni mai viste. All’incapacità tedesca di risollevarsi dal disastro della prima guerra mondiale contribuì dunque l’incomprensione, da parte della Francia, delle obiettive difficoltà del paese sconfitto: i francesi si ostinarono a pretendere l’osservanza precisa delle clausole dei trattati di pace. I ritardi tedeschi nel pagamento delle riparazioni portarono, fra l’altro, alla citata occupazione militare della Ruhr, che a sua volta fu la causa principale della inflazione galoppante del marco. Se qualche speculatore ci guadagnò, per operai, funzionari e impiegati pubblici fu invece la rovina.
Nell’autunno del 1923 si trovò un accordo e la Francia annunciò il ritiro delle truppe dalla Ruhr; ma ormai in Germania si stavano sviluppando un estremismo politico di destra e uno strisciante antisemitismo.
Nonostante tutti questi problemi, il periodo della repubblica di Weimar fu estremamente fecondo dal punto di vista artistico e culturale: si pensi ai quadri di Otto Dix, all’esperienza della Bauhaus o all’espressionismo di certo cinema muto (come nel celebre Gabinetto del dottor Caligari).

© Giovanni Scattone 2011

Comte

Auguste Comte (1798-1857), nato a Montpellier, è autore di un Corso di filosofia positiva, in sei volumi, e di numerose altre opere, fra cui il Sistema di politica positiva e il Catechismo positivista.
Il fine della filosofia è per lui di migliorare la condizione umana mediante l’ampliamento della nostra conoscenza; tutti i fenomeni vanno considerati “come sottoposti a leggi naturali invariabili, la cui scoperta precisa e la cui riduzione al minor numero possibile sono lo scopo di tutti i nostri sforzi”. L’attenzione va posta sul fatto concreto, e le costanti che accomunano più fenomeni sono espresse con leggi generali; le varie scienze sono tra loro collegate in una classificazione che, attraverso una crescente complessità e una decrescente generalità, comprende la matematica, l’astronomia, la fisica, la chimica, la biologia e la sociologia. Di quest’ultima Comte è considerato uno dei padri fondatori: egli ritiene che la storia francese post-rivoluzionaria sia un periodo di crisi che richiede un potenziamento degli strumenti scientifici atti a comprendere la società e ad intervenire su di essa per migliorarla. La sociologia si configura perciò come una vera e propria “fisica sociale”, che applica allo studio della società metodi analoghi a quelli delle scienze naturali.
Nel corso della storia, come pure nello sviluppo psicologico individuale, Comte individua il susseguirsi di tre stadi, che denomina rispettivamente teologico, metafisico e positivo, attraverso cui ci si libera gradualmente dai criteri non scientifici: “Nello stadio teologico lo spirito umano [...] si rappresenta i fenomeni come prodotti dall’azione diretta e continua di agenti soprannaturali più o meno numerosi, il cui intervento arbitrario spiega tutte le apparenti anomalie dell’universo. Nello stadio metafisico [...] gli agenti soprannaturali vengono sostituiti da forze astratte, entità (astrazioni personificate) inerenti ai diversi esseri del mondo e concepite come capaci di generare da sole tutti i fenomeni osservati. [...] Infine, nello stadio positivo, lo spirito umano [...] rinuncia a conoscere l’origine e il destino dell’universo ed a conoscere le cause intime dei fenomeni, per dedicarsi unicamente a scoprire, mediante l’uso ben combinato del ragionamento e dell’osservazione, le loro leggi effettive, cioè le loro relazioni invariabili di successione e di somiglianza”. Questa individuazione dei tre stadi comporta, all’interno della sociologia, una distinzione fra la statica sociale, che studia il modo in cui una società è organizzata e il suo atteggiarsi secondo un’idea-guida centrale, e la dinamica sociale, che studia l’evoluzione progressiva delle società in base alla legge dei tre stadi.
Nell’ultima fase della sua vita, Comte accentuò il carattere sentimentalistico della propria dottrina, proponendo una vera e propria “religione dell’Umanità” e suggerendo riforme volte a costruire un assetto sociale con al vertice dei sacerdoti-filosofi e al di sotto le classi dei banchieri, degli industriali, dei commercianti e degli agricoltori.

© Giovanni Scattone 2011

mercoledì 9 marzo 2011

Fichte

Il primo grande rappresentante dell’idealismo tedesco dell’Ottocento è Johann Gottlieb Fichte (1762-1814). Nato a Rammenau, studiò teologia a Jena e a Lipsia; fu inizialmente influenzato dal pensiero kantiano, tanto che un suo scritto pubblicato anonimo col titolo Ricerca di una critica di ogni rivelazione fu attribuito in un primo momento allo stesso Kant. Dopo aver insegnato all’Università di Jena dal 1794 al 1799, Fichte lasciò quella cattedra in seguito alle polemiche sorte sul suo presunto ateismo. Negli anni 1807-1808 invitò i prussiani alla resistenza contro Napoleone con i celebri Discorsi alla nazione tedesca, da lui tenuti a Berlino. Qui divenne in seguito professore, e per qualche tempo anche rettore, della neonata Università. Le sue opere principali sono raggruppabili in due periodi: a) periodo giovanile: Fondamento dell’intera dottrina della scienza, Fondamento del diritto naturale, Sistema della dottrina morale, La missione del dotto; b) periodo della maturità: Introduzione alla vita beata, Caratteri fondamentali dell’età presente.
La speculazione di Fichte prende le mosse dal criticismo kantiano, ma punta a superare la scissione fra fenomeno e noùmeno, fra come la realtà appare al soggetto e come essa è in sé. Il suo idealismo consiste nel considerare la soggettività dell’io come l’unica realtà, da cui dipende per intero l’esistenza delle cose esterne: “Lo scettico avrà sempre partita vinta finché si resterà attaccati all’idea di una connessione della nostra conoscenza con una cosa in sé, la quale, del tutto indipendentemente da essa, debba avere realtà. Uno dei primi fini della filosofia è pertanto quello di dimostrare palpabilmente la vanità di una tale idea”. La scelta fondamentale è dunque fra il dogmatismo, che ammette l’esistenza di una realtà esterna indipendente da noi, e l’idealismo: abbracciare questa seconda dottrina richiede per Fichte una particolare disposizione caratteriale. “La scelta di una filosofia dipende da quel che si è come uomo, perché un sistema filosofico non è un’inerte suppellettile che si può prendere o lasciare a piacere, ma è animato dallo spirito dell’uomo che lo ha fatto suo. Un carattere fiacco per natura […] non potrà mai elevarsi all’idealismo”.
Il punto di partenza del sistema idealistico di Fichte è l’io inteso come pura attività, puro pensiero; esso può concretizzarsi come attività solo se incontra davanti a sé un limite, il non-io, che rappresenta per l’io un ostacolo necessario e interno, posto dall’io stesso. Di fronte a quest’ostacolo l’io puro si frammenta dando origine alla molteplicità degli io empirici (gli individui umani) e dei non-io empirici (le cose). I tre principi basilari della dottrina della scienza sono pertanto i seguenti: a) l’io pone se stesso; b) l’io oppone a sé il non-io; c) l’io oppone, al suo interno, all’io divisibile un non-io divisibile. Questi tre principi esprimono il processo con cui l’io puro produce ogni cosa: se il mondo esterno ci appare dotato di un’esistenza autonoma dal pensiero è solo perché la soggettività assoluta dell’io puro dà origine alle cose in modo inconscio, mediante l’immaginazione produttiva. Il ruolo della conoscenza è proprio di consentire agli io empirici, ai soggetti umani, di prendere coscienza del fatto che ogni cosa nasce dall’attività pensante dell’io. Non solo il fenomeno, ma anche il noùmeno va inteso come interno al pensiero, e quindi l’unica cosa esistente è il pensiero come attività, l’io come attività, da cui tutto il resto ha origine.
Ma che rapporto c’è fra l’io puro, che si autopone come identico (io=io), e la pluralità degli io empirici? In primo luogo si può dire che l’io puro di Fichte, contrariamente all’ “io penso” kantiano, è trascendentale non rispetto agli oggetti della conoscenza ma rispetto ai molteplici io empirici; in secondo luogo gli io empirici non sono che momenti dell’io puro, e solo come tali hanno rilevanza. Analogamente, gli individui che appartengono alla specie umana non hanno significato e valore in quanto singoli; solo nel rapporto con altri esseri umani e nel reciproco riconoscersi come dotati di libertà e razionalità gli uomini possono dirsi propriamente tali: “L’uomo diviene un uomo solo tra gli uomini”. La dottrina di Fichte è stata anche definita “idealismo etico”, per sottolineare l’importanza dell’attività pratica dell’io che, nella sua incessante opposizione al non-io, è a fondamento pure dell’attività teoretica; e la morale individuale comporta anch’essa un continuo contrasto fra la razionalità e gli impulsi sensibili. L’uomo in cui la libertà morale vince la sensibilità è il dotto (Gelehrter), ossia l’uomo di cultura che ha il compito di educare i propri simili e di spronarli con l’esempio alla difesa della verità e dei valori più elevati: la missione del dotto, quindi, “consiste nel sorvegliare dall’alto il progresso effettivo del genere umano e nel promuovere costantemente questo progresso”. Lo stato nasce da un contratto sociale, con cui si stabilisce che ognuno può vivere del proprio lavoro e che spetta al governo garantire ai cittadini la sicurezza e il lavoro (o un’adeguata assistenza per chi non è in grado di lavorare). Nello scritto Lo stato commerciale chiuso Fichte sostiene inoltre che lo stato deve essere autosufficiente, producendo tutto ciò di cui i cittadini hanno bisogno e ispirando la propria politica economica a criteri di rigido protezionismo. Per tutelare i suoi membri, lo stato dispone di un potere di polizia, che cerca di prevenire le violazioni della legge, di un potere giudiziario, che constata le eventuali violazioni, e di un potere penale, con il compito di stabilire la pena adeguata.
A partire dal 1800, forse influenzato dalla rovente polemica sull’ateismo in cui era stato coinvolto, Fichte accentuò il carattere religioso del suo pensiero, pur senza rinnegare mai la dottrina esposta negli anni precedenti. Nelle ultime opere Dio non è identificato semplicemente con l’ordinamento morale del mondo, ma è concepito piuttosto come un Assoluto raggiungibile solo mediante uno slancio mistico-religioso.
Nello scritto Caratteri fondamentali dell’età presente è suggerita infine l’idea di un evolversi della storia umana secondo una serie di fasi, che conducono al progressivo imporsi della ragione. L’umanità sarebbe partita da un’età dominata dall’istinto, per poi passare attraverso l’epoca dell’autorità e quella della crisi (identificata con l’illuminismo), dirigendosi verso una futura epoca della morale, che segnerà il definitivo prevalere della ragione e della libertà.

© Giovanni Scattone 2011