domenica 27 marzo 2011

Schopenhauer

Negli scritti di Arthur Schopenhauer (1788-1860) si fondono in modo originale le  influenze della filosofia platonica, di quella kantiana e del pensiero indiano: ne risulta una dottrina complessa, venata di pessimismo e di irrazionalismo, e assai critica nei confronti degli idealisti tedeschi, soprattutto di Hegel.
Nato a Danzica, Schopenhauer ebbe modo di seguire le lezioni di Fichte a Berlino, e portò a termine gli studi universitari a Jena presentando un’importante dissertazione Sulla quadruplice radice del principio di ragion sufficiente. Divenne amico di Goethe e dell’orientalista Mayer, che lo invitò allo studio della filosofia indiana. Nel 1818 completò la sua opera principale, Il mondo come volontà e rappresentazione, che non riscosse però alcun successo. Due anni dopo ottenne la libera docenza a Berlino, ma la fama giunse solo molto più tardi, nel 1851, con la pubblicazione dei Parerga e paralipomena. Il tardivo successo del suo pensiero tendenzialmente pessimistico può forse venir collegato al contemporaneo fallimento degli ideali del 1848 e al graduale tramonto dell’influenza hegeliana.
Nell’opera Il mondo come volontà e rappresentazione la realtà circostante è vista come rappresentazione, ossia come percepita da un soggetto: “Tutto ciò che esiste per la conoscenza – dunque questo mondo intero – è solamente oggetto in rapporto al soggetto, intuizione di chi intuisce; in una parola, rappresentazione”. Si può pertanto distinguere fra il soggetto, che non è mai il contenuto di una rappresentazione ed è pura attività, e l’oggetto, che è invece il contenuto o materia della rappresentazione: nella percezione l’oggetto viene strutturato e determinato secondo le tre forme a priori, che sono lo spazio, il tempo e la causalità. Appare qui evidente l’eredità kantiana: “Le forme essenziali e perciò universali di ogni oggetto, le quali sono spazio, tempo e causalità, possono, muovendo dal soggetto, venir trovate e pienamente conosciute anche senza la conoscenza stessa dell’oggetto; il che val quanto dire, nel linguaggio di Kant, che esse stanno a priori nella nostra coscienza. L’aver ciò scoperto è un capitale merito di Kant”.
Diversamente da Kant, che concepiva le forme a priori come trascendentali, Schopenhauer ritiene che l’intelletto sia una funzione del cervello distinguibile dalla sensazione su basi biologiche. Egli vede inoltre nella causalità, con cui si pone un oggetto come determinante e un altro come determinato, il tramite che unisce lo spazio con il tempo: “Il cambiamento sopravveniente secondo la legge causale concerne ogni volta una determinata parte dello spazio e una determinata parte del tempo, simultaneamente e insieme. Quindi la causalità congiunge lo spazio col tempo”. Dal fatto che il mondo è rappresentazione e quindi fenomeno consegue l’impossibilità di cogliere le cose in sé con la normale attività conoscitiva, e  addirittura la difficoltà di discernere il sonno dalla veglia: “Il solo criterio sicuro per distinguere il sogno dalla realtà è invero quello affatto empirico del risveglio”. La distinzione kantiana fra fenomeno e cosa in sé va reinterpretata come quella fra apparenza e realtà; il fenomeno è paragonabile a un “velo di Maya” che bisogna strappare per vedere la realtà nella sua vera essenza.
La verità può essere colta soltanto col nostro corpo, perché esso ci consente di scoprire quella volontà di vita, unica e irrazionale, che è il motore e l’essenza non soltanto dell’uomo ma di tutto il reale. Solo il nostro corpo ci è dato al tempo stesso dall’esterno, come rappresentazione, e dall’interno, come volontà colta introspettivamente: “Al soggetto della conoscenza, il quale per la sua identità col proprio corpo ci si presenta come individuo, questo corpo è dato in due modi affatto diversi: è dato come rappresentazione nell’intuizione dell’intelletto, come oggetto fra oggetti, e sottomesso alle leggi di questi; ma è dato contemporaneamente anche in tutt’altro modo, ossia come quell’alcunché direttamente conosciuto da ciascuno, espresso dalla parola volontà [...]. Il corpo intero non è altro se non la volontà oggettivata, ossia divenuta rappresentazione”. La volontà, che costituisce l’essenza di ogni cosa, si particolarizza nel mondo dei fenomeni secondo le tre forme a priori (spazio, tempo e causalità), dando luogo in natura a una serie di gradi ascendenti, ciascuno dei quali va inteso come un’idea in senso platonico: “Per idea intendo ogni determinato ed immobile grado di obiettivazione della volontà, in quanto esso è cosa in sé, e sta quindi fuori della pluralità. Codesti gradi stanno ai singoli oggetti, come le loro forme, o i loro modelli”. La volontà è dunque unica ma si esprime nel molteplice: “Come una lanterna magica fa apparire molte e diverse immagini, ma una sola è la fiamma, che quelle immagini rende visibili, così in tutti i molteplici fenomeni che o l’uno accanto all’altro riempiono il mondo, o l’un dopo l’altro s’incalzano in forma di avvenimenti, è nondimeno la volontà unica, che si disvela”. I tre fondamentali gradi ascendenti in cui la volontà si manifesta sono la natura inorganica, quella organica e l’essere umano; il passaggio da un grado all’altro avviene perché la volontà è una cieca e irrazionale tendenza che non riesce mai a soddisfarsi nelle diverse espressioni fenomeniche.
Il processo di obiettivazione della volontà nei vari gradi ascendenti è caratterizzato da una lotta incessante: il mondo animale si ciba di quello vegetale, alcuni animali si nutrono di altri, l’uomo infine vede nel resto del mondo nient’altro che l’oggetto del proprio dominio. Ma il pessimismo di Schopenhauer non trae origine soltanto dalla constatazione di questa lotta onnipresente, ma anche, più radicalmente, dalla concezione della volontà come tendenza mai soddisfatta all’autoaffermazione. La vita è un’altalena fra dolore (desiderio inappagato) e noia (desiderio appagato). Da un lato, infatti, la volontà consiste nel desiderare, e il desiderio comporta la mancanza di ciò che si desidera, quindi uno stato di dolore; d’altra parte, però, una completa soddisfazione del desiderio equivarrebbe a una condizione di noia, che è persino peggiore del dolore stesso. “Felici ancora, se qualche cosa rimane al nostro desiderio ed alla nostra aspirazione, per alimentare il giuoco del perenne passaggio dal desiderio all’appagamento, e da questo ad un nuovo desiderio [...], invece di cadere in quella paralisi, che si rivela come orribile, stagnante noia”. Una possibile via per uscire da questa terribile alternanza di dolore e noia è costituita dall’arte; la conoscenza estetica, infatti, non afferra l’oggetto singolo ma direttamente l’idea mediante un’intuizione. Le varie arti sono classificabili secondo una gerarchia che, attraverso l’architettura, la scultura, la pittura e la poesia, raggiunge il suo vertice con la musica: quest’ultima prescinde dalla raffigurazione ed è diretta oggettivazione della volontà.
Con l’intuizione artistica, peraltro, si raggiunge una liberazione solo temporanea: per superare in maniera stabile l’altalena di dolore e noia bisogna andare al di là della contemplazione estetica, e giungere fino a sopprimere in se stessi la volontà di vivere. Questa soppressione può avvenire attraverso una serie di tappe, la prima delle quali consiste nella giustizia, intesa come superamento dell’egoismo. La seconda tappa è poi la compassione, che vuol dire appunto “patire insieme”, ossia renderci conto dell’uguale destino di dolore che tutti ci accomuna. Ma la compassione comporta ancora sofferenza: l’unico modo per liberarsi completamente della volontà di vivere è l’ascesi, che si raggiunge abbracciando il dolore dell’intero universo e raccogliendosi in uno spazio mistico di quiete mediante la negazione della volontà. “Quel che rimane dopo la soppressione completa della volontà è invero, per tutti coloro che della volontà ancora sono pieni, il nulla. Ma per gli altri, in cui la volontà si è rivolta da se stessa e rinnegata, questo nostro universo tanto reale, con tutti i suoi soli e le sue vie lattee, è esso il nulla”.
Oltre che sulla filosofia di Nietzsche e sulla psicanalisi di Freud, la filosofia schopenhaueriana ha avuto una profonda influenza anche sulla musica di Wagner e sul romanzo dell’Ottocento e del primo Novecento, da Tolstoj a Zola, da Kafka a Thomas Mann: e lo stesso Mann è anche autore di un importante saggio dedicato a Schopenhauer.

© Giovanni Scattone 2011