mercoledì 23 marzo 2011

Marx

Karl Marx (1818-1883) nacque a Treviri in una famiglia ebrea: il padre era un avvocato convertitosi al luteranesimo. Dopo aver studiato filosofia e diritto nelle università di Bonn e di Berlino, Marx si laureò con una tesi sulla Differenza tra la filosofia della natura di Democrito e quella di Epicuro. Entrò in contatto con alcuni esponenti della Sinistra hegeliana e nel 1844 a Parigi conobbe Friedrich Engels (1820-1895), con cui collaborò strettamente per il resto della vita. Aderì alla Lega dei comunisti fin dalla fondazione (1847) e l’anno seguente scrisse con Engels il Manifesto del partito comunista. A causa delle sue idee rivoluzionarie, nel 1849 venne espulso dalla Germania e dovette trasferirsi a Londra con la famiglia (nel 1843 aveva sposato Jenny von Westphalen, da cui ebbe sei figli). Nell’esilio inglese scrisse la sua opera maggiore, Il capitale. Con la fondazione della Prima Internazionale nel 1864, riprese un ruolo attivo all’interno del movimento comunista. Visse gli ultimi anni in ristrettezze economiche, morendo nel 1883 dopo una lunga malattia. Fra gli altri suoi scritti, ricordiamo i Manoscritti economico-filosofici del 1844, l’Ideologia tedesca e Per la critica dell’economia politica.
Partendo da un esame critico della filosofia hegeliana e dell’economia classica inglese, Marx sviluppa già nelle opere giovanili un’originale analisi del capitalismo moderno. Innanzitutto, egli sostiene che l’economia politica del suo tempo ha il grave difetto di presentare come leggi economiche valide sempre e dovunque quelle che sono in realtà forme produttive legate a una società e a un particolare momento storico. Inoltre, il modo di produzione capitalistico provoca il fenomeno dell’alienazione, consistente nel fatto che l’operaio non realizza se stesso nel lavoro, ma vende la propria attività lavorativa come una merce per sopravvivere, rendendosi così schiavo del suo prodotto: “Divenendo universali la divisione del lavoro e l’impiego delle macchine, il lavoro dei proletari ha perduto ogni carattere d’indipendenza e quindi ogni attrattiva per l’operaio. Questi diviene un mero accessorio della macchina, cui non è richiesta che un’applicazione tra le più semplici e monotone, assai facile ad imparare”. Nel sistema capitalistico, dunque, ciò che il lavoro produce non appartiene al lavoratore: appartiene al capitalista, proprietario degli strumenti di produzione e sfruttatore dei salariati. La dialettica hegeliana è ripensata da Marx nei termini seguenti: la negazione del valore dell’uomo, dovuta allo sfruttamento, va rovesciata attraverso una “negazione della negazione” che porti a un radicale mutamento dell’assetto sociale. Nell’Ideologia tedesca Marx critica gli hegeliani e Feuerbach: se Hegel è un conservatore che difende la situazione presente considerandola espressione di una superiore razionalità, anche la Sinistra hegeliana continua a credere che la critica delle idee attraverso le idee possa cambiare la realtà. Invece l’unico modo per cambiare le cose è rendersi conto che gli uomini sopravvivono mediante rapporti di lavoro: l’economia rappresenta la struttura fondamentale da cui dipendono la religione, la filosofia e il diritto, che costituiscono la sovrastruttura di un dato periodo storico (è questa la cosiddetta “concezione materialistica della storia”). Solo intervenendo sulla struttura economica è possibile dunque eliminare lo sfruttamento, e la filosofia non deve restare pura astrazione, ma deve intervenire sul terreno della prassi: “I filosofi hanno finora soltanto diversamente interpretato il mondo: si tratta ora di trasformarlo”.
Nel corso dello sviluppo storico, si sono susseguite secondo Marx diverse forme di organizzazione proprietaria: “La prima forma di proprietà è quella tribale. Essa corrisponde a quel grado non ancora sviluppato della produzione in cui un popolo vive di caccia e di pesca, dell’allevamento del bestiame o al massimo dell’agricoltura [...]. La seconda forma è la proprietà della comunità antica [...] che ha origine dall’unione di più tribù in una città [...]. La terza forma è la proprietà feudale o degli ordini [...]. L’organizzazione gerarchica del possesso fondiario e le relative compagnie armate davano alla nobiltà il potere sui servi della gleba”. A queste prime tre forme di proprietà fa seguito l’avvento del capitalismo e la conseguente ripartizione ineguale del lavoro e dei suoi prodotti. Con il termine di borghesia Marx si riferisce alla classe dei moderni capitalisti, proprietari dei mezzi di produzione e datori di lavoro salariato; con quello di proletariato intende invece la classe di quanti, “non possedendo mezzi di produzione propri, si trovano costretti, per vivere, a vendere la loro forza lavorativa”. Questi ultimi potranno liberarsi dalla condizione infelice di asservimento in cui si trovano se uniranno le loro forze per abbattere il dominio della borghesia, conquistare il potere politico e dar vita a un’organizzazione collettiva della produzione; da qui l’invito con cui si conclude il Manifesto: “Proletari di tutti i paesi, unitevi!”.
La storia di tutte le società è stata sempre, secondo Marx, una storia di lotte fra classi; in ciascun periodo storico la cultura della classe al potere è stata anche la cultura dominante. Ciò che determina lo svolgersi della storia è infatti, ancora una volta, la struttura economica: “Nella produzione sociale della loro esistenza, gli uomini entrano in rapporti determinati, necessari, indipendenti dalla loro volontà, in rapporti di produzione che corrispondono a un determinato grado di sviluppo delle loro forze produttive materiali [...]. Il modo di produzione della vita materiale condiziona, in generale, il processo sociale, politico e spirituale della vita. Non è la coscienza degli uomini che determina il loro essere ma è, al contrario, il loro essere sociale che determina la loro coscienza. A un dato punto del loro sviluppo, le forze produttive materiali della società entrano in conflitto con [...] i rapporti di proprietà [...]. Da forme di sviluppo delle forze produttive, questi rapporti si convertono in loro catene: si apre allora un’epoca di rivoluzione sociale”.
Per capire il perché di questa complessa dinamica, che porta infine all’abbattimento del capitalismo mediante la rivoluzione proletaria, occorre un’approfondita analisi economica che metta in evidenza le contraddizioni interne al sistema capitalistico: tale analisi è tentata da Marx nella sua opera più famosa, Il capitale. Qui egli distingue fra il valore d’uso di una merce, che è la sua capacità di soddisfare determinati bisogni degli uomini, e il valore di scambio, che rappresenta il valore sul mercato ed è espresso dal prezzo di una data merce. A questa distinzione, che Marx riprende da Smith e Ricardo, si collega la teoria del plusvalore, che spiega l’origine del profitto capitalistico. La forza-lavoro dell’operaio viene infatti venduta e acquistata come una qualsiasi altra merce, e il suo prezzo è rappresentato dal salario ricevuto dal lavoratore. Ma “il tempo di lavoro necessario a un operaio per produrre un valore uguale a quello che riceve sotto forma di salario è inferiore alla durata effettiva del suo lavoro. L’operaio produce, per esempio, in cinque ore un valore uguale a quello che è contenuto nel suo salario, ma in realtà lavora dieci ore. Egli lavora dunque la metà del tempo per sé e l’altra metà per l’imprenditore”. Il plusvalore è appunto quel valore aggiuntivo che l’operaio produce nelle ore di lavoro in più rispetto al tempo che sarebbe sufficiente per produrre un valore pari al salario ricevuto: di questo plusvalore, corrispondente a una quota di lavoro non pagato, si appropria il capitalista, e in ciò consiste lo sfruttamento. Quest’ultimo è destinato ad aumentare, perché la storia del capitalismo moderno è segnata dal continuo aumento dell’orario lavorativo, dal crescente utilizzo di lavoratori sottopagati (donne e bambini) e dall’uso sempre più massiccio di macchinari. La meccanizzazione del lavoro provoca al tempo stesso la disoccupazione (in quanto le macchine sostituiscono l’attività umana), un progressivo abbassamento dei salari legato all’eccesso di manodopera e, in ultima analisi, una crisi di sottoconsumo dovuta all’insufficiente potere di acquisto dei salariati. Infine, il capitalista è costretto per reggere la concorrenza a investire quote sempre maggiori del suo denaro nei macchinari (o “capitale costante”); ma poiché il plusvalore si origina solo dallo sfruttamento dei salariati (cioè dal “capitale variabile”), consegue da tutto ciò un’irreversibile diminuzione dei profitti (caduta tendenziale del saggio di profitto) che segna la crisi inevitabile dell’intero sistema capitalistico. Lo sbocco di questa crisi è una rivoluzione che conduce dapprima a una dittatura del proletariato e infine alla generale pacificazione in una società senza proprietà privata e senza classi.
Il capitale è rimasto incompiuto: vivente Marx, fu pubblicato soltanto il primo volume (1867), mentre il secondo e il terzo furono editi a cura di Engels, che si avvalse anche di copiosi manoscritti di Marx. Molto si è discusso sull’importanza del contributo e dell’influenza di Engels sull’insieme dell’opera marxiana; sta di fatto che in alcune opere pubblicate dopo la morte di Marx, fra cui la Dialettica della natura, Engels sviluppò una filosofia autonoma, tentando di applicare alcune categorie del materialismo storico anche al mondo naturale. Per quanto riguarda invece le interpretazioni novecentesche del pensiero di Marx, esse si intrecciano con le varie correnti neomarxiste, da Lenin fino alla Scuola di Francoforte.

© Giovanni Scattone 2011